sabato 16 settembre 2023

Canada: Diritto contrattuale moderno, l’emoji del pollice in su è considerata una valida accettazione dei termini contrattuali

In breve: Una Corte Superiore canadese ha stabilito che l’uso di un’emoji “👍” con il pollice in su è stato efficace per sostituire l’accettazione dei termini contrattuali. Il King’s Bench del Saskatchewan ha dichiarato che questo uso della moderna tecnologia “sembra essere la nuova realtà della società canadese e i tribunali dovranno essere pronti ad affrontare le nuove sfide che possono derivare dall’uso di emoji e simili”. In una recente sentenza, il King’s Bench di Saskatchewan in Canada (equivalente a una Corte Suprema di Stato in Australia) ha riconosciuto che l’uso di un’emoji con il pollice in su può costituire un’accettazione dei termini contrattuali. Per la maggior parte il caso riguardava fatti fondamentali che non erano in discussione, mentre la decisione riguardava l’applicazione del diritto contrattuale e del Saskatchewan Sale of Goods Act. Ciò che ha distinto il caso è stato il fatto che la Corte ha ritenuto che un’emoji con il pollice in su potesse essere utilizzata per confermare un contratto, soddisfacendo al contempo i requisiti del Sale of Goods Act, che richiedeva “una nota o un memorandum scritto del contratto stipulato e firmato”. Il giudizio Il caso di South West Terminal Ltd contro Achter Land & Cattle [2023] SKKB 116 riguardava un’azione per inadempimento contrattuale in cui South West Terminal (SWT) aveva acquistato del lino dalla Achter Land & Cattle (Achter), con consegna prevista per la fine di novembre 2021. Tuttavia, il lino non era poi mai stato consegnato e il fornitore (Achter) aveva sostenuto a sua discolpa che l’uso di un’emoji con il pollice in su non poteva trasmettere l’accettazione dei termini contrattuali, e quindi non esisteva un accordo giuridicamente vincolante per la fornitura. La Corte è stata incaricata di valutare se vi fosse “consensus ad idem“, o un’intenzione di creare rapporti giuridici tra le parti, che si traducesse in un contratto validamente formato. La Corte ha ritenuto che l’emoji fosse efficace per trasmettere l’accettazione dei termini contrattuali e che si fosse formato un contratto valido. Achter è stata condannata a pagare un risarcimento di 82.000 dollari (CAD) per la mancata consegna del lino (questo importo corrisponde alla differenza di prezzo tra il contratto in questione e il costo della fornitura sostitutiva). Tecnologia moderna e contratti Il caso è un prezioso promemoria del fatto che il diritto comune dei contratti ha la tradizione di evolversi per soddisfare le esigenze attuali. I tribunali di common law hanno sempre applicato un’ampia gamma di analisi per determinare le questioni contrattuali, come ad esempio se un certo tipo di firma sia sufficiente o se le parti abbiano accettato di essere vincolate. Nel corso del tempo, i tribunali hanno preso in considerazione diverse deviazioni dalla firma “a inchiostro umido”, incluse semplici modifiche come croci, iniziali, pseudonimi, nomi stampati e timbri di gomma, fino a considerare firme scansionate e firme elettroniche o generate artificialmente. Inoltre, i tribunali hanno riconosciuto diverse forme di documenti utilizzati per vincolare le parti, dagli atti e dalla pergamena alla carta dei contratti fino alle e-mail. Accordi con sigilli, firme, strette di mano o fatte oralmente, accettazione via e-mail, click su termini online, click sull’icona “Accetto” o pressione sullo schermo di un computer su un’icona opportunamente disegnata costituiscono consenso, accordo o firma elettronica. In questo caso, l’accettazione dell’emoji da parte della corte si è basata sulle comunicazioni precedenti e sulle pratiche contrattuali delle parti, illustrando la continua evoluzione e rivalutazione che i tribunali intraprendono quando considerano ciò che costituisce accettazione contrattuale. Sebbene non sia certamente consigliabile (o usuale) stipulare contratti inviando alla controparte un’emoji, questo caso rappresenta uno sviluppo interessante di cui le parti che si impegnano nel commercio attraverso brevi testi o conversazioni online devono essere consapevoli.

La Corte di Cassazione estende il regime di esenzione dalla partecipazione alle società dell’UE

La Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha stabilito che le società non residenti prive di stabile organizzazione in Italia possono applicare il regime di participation exemption (PEX) del 95% alla plusvalenza realizzata con la cessione di una partecipazione detenuta in una società residente in Italia, a condizione che siano soddisfatti i requisiti per il regime di participation exemption. La plusvalenza sarebbe soggetta a un’aliquota effettiva dell’1,2% (risultante dall’applicazione dell’aliquota ordinaria dell’imposta sul reddito delle società del 24% su un reddito imponibile pari al 5% della plusvalenza), anziché del 26%. La Corte di Cassazione ha confermato la posizione di una società madre francese che deteneva una “partecipazione sostanziale” in una controllata italiana, ossia una partecipazione che le dava diritto al 25% o più degli utili della controllata. La plusvalenza realizzata con la vendita delle azioni era stata assoggettata a tassazione italiana; ai sensi del Protocollo allegato al Trattato contro la doppia imposizione (DTT) Italia-Francia, all’Italia non è preclusa la possibilità di tassare tale plusvalenza; tuttavia, il regime PEX del 95% è stato negato dalle autorità fiscali italiane. Per beneficiare del regime PEX: (i) la partecipazione deve essere stata detenuta ininterrottamente per almeno 12 mesi prima della vendita (holding period); (ii) la partecipazione deve essere classificata tra le immobilizzazioni finanziarie nel primo bilancio chiuso dopo l’acquisizione della partecipazione; (iii) la controllata non deve essere residente in un Paese black list; (iv) la controllata deve aver effettivamente svolto un’attività commerciale (ad esempio, le partecipazioni in società immobiliari non hanno generalmente diritto al regime di participation exemption). Secondo la Corte di Cassazione, la mancata applicazione del regime PEX alle società non residenti prive di una sede italiana violerebbe le libertà fondamentali previste dal Trattato sul funzionamento dell’UE. Da un’analisi preliminare delle disposizioni in materia di plusvalenze contenute nelle DTT stipulate dall’Italia e dagli Stati UE/SEE, la Francia risulta essere l’unico Paese per il quale è prevista la tassazione nello Stato della fonte delle plusvalenze realizzate su partecipazioni in società non immobiliari. Pertanto, a condizione che siano soddisfatti i requisiti del regime PEX, le società madri francesi possono ragionevolmente fare affidamento sulla sentenza della Corte per applicare direttamente tale regime alle plusvalenze realizzate sulla cessione delle partecipazioni rilevanti in società italiane o, seguendo un approccio più prudente, pagare l’intera imposta sulla plusvalenza e poi chiedere il rimborso delle imposte. Si noti che la plusvalenza sarebbe comunque soggetta a tassazione francese, ma si dovrebbe ottenere un credito d’imposta per le imposte italiane pagate. L’impatto della sentenza della Corte di Cassazione potrebbe non essere limitato alle sole transazioni Italia-Francia. Sulla base dell’esperienza relativa al regime fiscale dei dividendi distribuiti da società controllate italiane a società madri residenti nell’UE, la legislazione fiscale italiana potrebbe reagire alla recente giurisprudenza adottando una disposizione che estenda espressamente l’applicabilità diretta del regime PEX alle plusvalenze realizzate almeno da società madri residenti nell’UE e da società madri residenti in Stati dello Spazio economico europeo (SEE) senza una sede italiana. Una questione simile è sorta in Francia e il regime fiscale è stato modificato per consentire ad altre società dell’UE di beneficiare della participation exemption francese. La participation exemption può essere utilizzata fin dall’inizio, a condizione che tutte le giustificazioni siano debitamente comunicate. Inoltre, la più recente giurisprudenza della CGUE indica che una norma concepita in modo simile alla PEX dovrebbe essere messa a confronto con le disposizioni sulla libera circolazione dei capitali (piuttosto che con quelle sulla libertà di stabilimento). Basandosi su questo aspetto e sull’applicabilità della libera circolazione dei capitali ai Paesi extra-UE, si potrebbe sostenere che il regime della PEX dovrebbe essere esteso anche alle società madri extra-UE che detengono una partecipazione in una società italiana e realizzano una plusvalenza imponibile in Italia secondo le norme fiscali applicabili. Da una prima analisi, questo sarebbe il caso di Cina, Corea del Sud e Israele, indipendentemente dall’attività svolta dalla società italiana.