giovedì 4 aprile 2013
Licenziamento per giusta causa: quando la pausa caffè è di troppo...
La giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca, affidatario di somme anche rilevanti, dev'essere apprezzata con riguardo non soltanto all'interesse patrimoniale della datrice di lavoro ma anche, sia pure indirettamente, alla potenziale lesione dell'interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito. Priva di rilievo risulta la deduzione del ricorrente in ordine alla esistenza ed alla efficacia scriminante della prassi aziendale invocata dal lavoratore.
a cura di Redazione
E' incensurabilmente accertato l'illecito consistente nell'allontanamento dal posto di lavoro senza chiudere la cassa ed anzi , lasciando in sospeso un 'operazione del valore di cinquecentomila lire con conseguente mancata tempestiva registrazione dei dati contabili per l'intera giornata e un fermo di dieci minuti per tutte le operazioni della mattina successiva.
Con specifico riferimento alla dedotta esistenza di una prassi aziendale alla quale il ricorrente sostiene di essersi attenuto nell'allontanarsi dalla postazione di lavoro, la sentenza rescindente cosi si è espressa: "Anche qui la Corte d'appello non nega l'illecito qual considera non grave poiché a quel comportamento era solito porre rimedio un altro funzionario della banca coadiuvato da un altro dipendente sulla base di una regola non scritta ma dettata dal buon senso".
Il collegio di merito ha errato ancora una volta in diritto poiché non ha considerato che la giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca, affidatario di somme anche rilevanti, dev'essere apprezzata con riguardo non soltanto all'interesse patrimoniale della datrice di lavoro ma anche, sia pure indirettamente, alla potenziale lesione dell'interesse pubblico alla sana e prudente gestione del credito (cfr. D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 5, comma 1, e art. 14, comma 2, contenente il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia).
Nè il rigoroso rispetto delle regole di maneggio del denaro può essere sostituito da non meglio specificate regole di buon senso, inidonee ad assicurare la conservazione del denaro della banca e dei clienti.
Anche questa violazione dell'art. 2119 c.c. insieme alla sottovalutazione dei precedenti disciplinari a carico del lavoratore, porta alla cassazione della sentenza impugnata.
I suddetti comportamenti significano, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, negazione del potere organizzativo e disciplinare della datrice di lavoro, sia pure manifestata per fatti concludenti invece che in forma espressa.
Nè è vero che non risulti accertato l'elemento soggettivo dell'illecito poiché il fatto che il lavoratore si attenga consapevolmente a regole di cosiddetto buon senso invece che a quelle impartite dall'imprenditore dimostra un'accettazione dei conseguenti rischi economici a carico dell'impresa,idonea a qualificare la colpa come cosciente.
Alla luce di tali indicazioni, alle quali il giudice del rinvio era vincolato al fine della verifica della sussistenza della giusta causa e quindi del giudizio di proporzionalità , priva di rilievo risulta la deduzione del ricorrente in ordine alla esistenza ed alla efficacia scriminante della prassi aziendale invocata dal lavoratore.
La censura alla decisione impugnata di non avere tenuto conto, che al momento dell'allontanamento del ricorrente per la pausa caffè, operavano più casse, non è decisivo perché la presenza di una pluralità di casse, delle quali non è detto se tutte in funzione, non esclude comunque che il venir meno di una cassa rallentava le operazioni delle altre sulle quali venivano dirottati i clienti in fila che comunque erano in numero cospicuo né incide sulla valutazione della negligenza della condotta espressa nella sentenza di secondo grado.
Cass. Civ., 28 marzo 2013, n. 7819
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