venerdì 6 settembre 2013

Molestie telefoniche via sms: la Cassazione chiarisce i contorni del reato

Il Supremo Collegio di legittimità, con la sentenza n. 2597/2013, ha preso posizione sulla corretta applicazione dell’art. 660 c.p. da parte dei giudici di prime cure, i quali avevano ritenuto integrato il reato di molestie da parte dell’imputata, la quale, attraverso il mezzo dello Short Message Service (SMS), aveva inviato dei messaggi di testo dal contenuto offensivo al telefono cellulare della persona offesa. Il giudice del merito aveva ritenuto idonea la suesposta condotta a recare molestia e disturbo al destinatario dei messaggi, soggetto passivo del reato, alterandone in modo significativo le normali condizioni di tranquillità personale e familiare e ponendolo in una condizione di forte disagio. Risultava in tal modo integrata la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 660 c.p., a mente della quale è punito chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo. Avverso tale sentenza l’imputata ricorreva in Cassazione, sostenendo la scorrettezza della qualificazione della propria condotta in termini di molestia, sulla scorta di due principali argomentazioni: in primo luogo, rilevava la non configurabilità di una lesione dell’ordine pubblico, assunto quale bene giuridico tutelato dalla contravvenzione de qua; in seconda istanza, osservava l’inattitudine del comportamento posto in essere, consistente nell’invio di soli due SMS in ora diurna e da utenza telefonica non celata, a integrare la condotta tipica del reato. I motivi del ricorso, tuttavia, sono stati giudicati manifestamente infondati. La Corte di Cassazione, quanto alla prima censura, ha rilevato che il reato di molestie si connota per un’intrinseca attitudine plurioffensiva, essendo posto a salvaguardia non solo dell’ordine pubblico, ma della stessa tranquillità della persona offesa. Quest’ultima, intesa come riservatezza e intangibilità della sfera della vita privata, nella fattispecie in parola era stata seriamente perturbata, integrando così il necessario livello di offensività costituzionalmente richiesto ad ogni incriminazione penale. Sotto il secondo profilo, hanno soggiunto gli ermellini, la condotta tenuta dall’imputata è risultata pienamente idonea a integrare il comportamento penalmente rilevante tratteggiato dall’art. 660 c.p., il quale si sostanzia in un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, arrecante molestia o disturbo a chi lo subisce (Cass. Pen., Sez. I, 24 novembre 2011, n. 6908). La molestia, in particolare, consiste in quell’azione capace di incidere negativamente sulla condizione psichica del destinatario, alterandola fastidiosamente o inopportunamente, mentre il disturbo risulta dall'alterazione delle normali condizioni di vita del soggetto passivo del reato (Tribunale di Trento, Penale, 19 ottobre 2011, n. 863). Ai giudici di legittimità, allora, è apparsa corretta la complessiva sussunzione entro il tratteggiato reato di molestia della condotta dell’imputata, la quale, tramite telefono cellulare, aveva inoltrato messaggi di testo dal contenuto ingiurioso alla persona offesa, a nulla rilevando né il mancato occultamento dell’identità del mittente né l’esiguità numerica degli sms. In forza di un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, la fattispecie contravvenzionale in commento non è configurata dalla legge come necessariamente abituale e, pertanto, è suscettibile di essere commessa anche con una sola azione, cui corrisponde un singolo episodio di disturbo o di molestia (ex multis, Cass. Pen., Sez. I., 16 marzo 2010, n. 11514). Alla luce di tali rilievi, pertanto, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso ed ha confermato la condanna a tenore dell’art. 660 c.p.

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