venerdì 27 dicembre 2013
Estratto ruolo insufficiente per dimostrare il credito
L'estratto di ruolo della cartella di pagamento è insufficiente per provare l'esistenza dell'atto notificato ed il credito di Equitalia.
La Cassazione ha deciso: Equitalia deve dar prova di aver notificato nei termini e fornire copia integrale della cartella notificata.
Trattasi di una sentenza importante che ripristina una regola elementare che Equitalia voleva ignorare ed auspica modifiche della procedura per rendere più trasparente il rapporto con i contribuenti.
Per verificare se sia stata violata la normativa inviare una e.mail al nostro servizio legale: marco.tarelli@icam.es
Usura bancaria: nel calcolo del tasso soglia va ricompresa la polizza assicurativa a garanzia del rimborso del mutuo
Corte d'Appello di Milano, Sez. I, 22 agosto 2013, n. 3283
Fonte: Dott.ssa Carla Romana Raineri
Con sentenza n. 3283 del 22 agosto 2013 la Corte d’Appello di Milano ha affrontato il tema della corretta determinazione del tasso soglia rilevante in materia di usura.
La determinazione di tale tasso, evidenzia la Corte, deve essere condotta tenendo conto di commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse solo quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito.
In tale prospettiva deve essere ricompresa, nel calcolo del tasso praticato, anche la polizza assicurativa finalizzata alla garanzia del rimborso del mutuo, atteso che essa è condizione necessaria per l’erogazione del credito ed attesa, altresì, la sua natura remunerativa, sia pure in via indiretta, per il mutuante.
Come ricorda la Corte, devono, infatti, ritenersi rilevanti, ai fini della integrazione della fattispecie dell’usura, tutti gli oneri che il contraente sopporta in connessione con l’erogazione del credito.
giovedì 31 ottobre 2013
Il deposito della querela
La querela sottoscritta con firma autenticata dal difensore può essere materialmente presentata da una persona diversa dal proponente senza necessità di apposita procura speciale.
Nel nostro ordinamento giuridico, infatti, per alcuni reati tassativamente indicati, è prevista la perseguibilità della condotta illecita sia direttamente rimessa alla volontà della persona offesa e, dunque, alla sua espressa richiesta, inserita nell’atto di querela, di esperire nei confronti dell’autore del reato l’azione penale per tutti gli illeciti eventualmente ravvisabili.
In particolare, la querela costituisce atto negoziale di diritto pubblico, riservato alla persona offesa dal reato, sia essa persona fisica o giuridica, alla cui conforme manifestazione di volontà la legge ricollega l’effetto di rendere possibile l’esercizio dell’azione penale, con riguardo a taluni fatti criminosi (Cass. Pen., Sez. V, 17/04/2000, n. 4695). In tali tassative ipotesi, essa diviene allora presupposto necessario per la procedibilità, ossia per l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero.
Può essere proposta personalmente dalla parte o per mezzo di procuratore speciale, mediante dichiarazione nella quale si manifesta la volontà che si proceda in ordine a un fatto previsto dalla legge come reato, e presentata oralmente o per iscritto.
In particolare, quando la querela è presentata per iscritto deve recare o la firma personale del querelante o quella di un suo procuratore speciale.
Essa, può essere presentata alle autorità alle quali può essere inoltrata denuncia (pubblico ministero o un ufficiale di polizia giudiziaria) o a un agente consolare all’estero e può essere presentata direttamente dal proponente, o anche ad opera di incaricato o spedita per posta in piego raccomandato. In tale ultimo caso, però, necessita della autenticazione della sottoscrizione proveniente da soggetto legittimato, e, dunque, ai sensi dell’articolo 39 disp. att. C.P.P., anche dal difensore nominato dalla persona offesa (Cass. Pen., Sez. V, 23/10/2007, n. 39049).
Sul punto, in particolare, la giurisprudenza ha precisato che è valida l’autenticazione della firma del querelante effettuata dal difensore anche quando questi non sia stato formalmente nominato, sempre che, in tale ipotesi, la volontà di nomina sia ricavabile da altre dichiarazioni rese dalla parte nell’atto di querela, quale l’elezione di domicilio presso il difensore che ha autenticato la sottoscrizione (Cass. Pen., Sez. II, 15/10/2008, n. 38905; Cass. Pen., SS. UU, 28/07/2006, n. 26549).
Di converso, non è valido l’atto di querela qualora l’autenticazione della firma del querelante sia effettuata da un avvocato non designato come difensore, ma semplicemente incaricato della sua presentazione, in quanto l’autenticazione della firma del querelante, effettuata da un avvocato, deve ritenersi valida solo nel caso in cui sia nominato difensore della persona offesa, ai sensi dell’art. 96, comma II, e 101, comma I, C.P.P., seppur, come già rappresentato sopra, tacitamente (Cass. Pen., Sez. IV, 12/11/2008, n. 42140). Anzi, l’irregolare presentazione della querela, la cui sottoscrizione sia stata autenticata da difensore sprovvisto di nomina, equivale alla mancata presentazione della querela stessa; in sostanza, quindi, viene a mancare in tal caso la condizione di procedibilità richiesta per il reato contestato, di talché s’impone la dichiarazione di improcedibilità dell’azione penale.
Ovviamente nel caso appena descritto non è previsto, però, che il difensore che effettui l’autentica sia munito anche di procura speciale, essendo viceversa necessario soltanto che egli risulti nominato dalla persona offesa. Invero, a tal proposito va considerato che l’autenticazione della sottoscrizione della querela, richiesta dall’art. 337 C.P.P., nel caso in cui questa venga presentata da un incaricato, trova spiegazione solo nella necessità di garantire la provenienza sicura dell’atto e quindi la titolarità del diritto di sporgere querela. Non occorrono, pertanto, formule specifiche per essa, essendo solo necessario che avvenga ad opera di soggetto a ciò abilitato e che abbia accertato l’identità della persona che sottoscrive.
A ciò consegue che tale atto, munito di sottoscrizione autenticata, può essere depositato materialmente da un incaricato anche se sfornito di procura speciale, in quanto per il conferimento dell’incarico non sono previste forme particolari, potendo essere affidato anche oralmente. Tale assunto ha trovato conferma in diverse decisioni giurisprudenziali, nelle quali si è evidenziato come la querela sottoscritta con firma autenticata dal difensore può essere materialmente presentata da una persona diversa dal proponente, e per questa non è prevista la necessità di procura speciale (Cass. Pen., Sez. V, 15/10/2010, n. 36989; conf. N. 2623 del 2004, n. 4649 del 2006).
Nel caso in cui, invece, la querela venga depositata personalmente dal querelante, l’autorità che la riceve, ai sensi dell’art. 337, comma IV, C.P.P., provvede alla attestazione della data e del luogo della presentazione e alla identificazione della persona che la propone.
lunedì 28 ottobre 2013
Strisce blu: parcheggio gratis e multe nulle se è scaduta la convenzione tra Comune e gestore
Impossibile il rinnovo tacito della convenzione tra Comune ed ente gestore: tutte le multe sulle strisce blu vengono quindi annullate.
Non si può fare la multa sulle strisce blu se la convenzione che lega il Comune al gestore degli spazi a pagamento è scaduta. In tali casi, dunque, è possibile parcheggiare liberamente, senza bisogno di esporre il ticket sul cruscotto dell’autovettura.
L’ente locale non può invocare, a propria difesa, neanche il rinnovo tacito del rapporto che lo lega con il predetto gestore degli stalli: infatti, nelle forniture di servizi pubblici, ciò non è consentito né dalle norme dell’Unione europea, né dal nostro codice degli appalti.
Questi principi sono stati di recente affermati dal Giudice di Pace di Palermo, con una sentenza appena pubblicata [1].
Il codice degli appalti pubblici vieta espressamente il rinnovo tacito delle concessioni dei contratti scaduti: la proroga è possibile solo per quel minimo lasso di tempo necessario a bandire una nuova gara e la stipula del nuovo contratto.
Ogni cittadino, nell’ambito del proprio diritto di accesso agli atti, può sempre chiedere al Comune di esibire il contratto di concessione con il gestore degli spazi delimitati dalle strisce blu e verificare se il rapporto è ancora in essere. Seguendo poi il ragionamento del giudice siciliano, se tale contratto dovesse risultare scaduto, allora le eventuali multe per assenza del ticket sarebbero tutte impugnabili al giudice di pace.
[1] G.d.P. Palermo, sent. n. 1727/13.
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mercoledì 23 ottobre 2013
CIRCOLAZIONE STRADALE - LA NULLITA' IN TEMA DI ALCOLTEST PUO' ESSERE RILEVATA ANCHE D'UFFICIO
In tema di guida in stato di ebbrezza, la nullita' derivante dall'omesso avviso all'indagato da parte della polizia giudiziaria che proceda ad un atto urgente ed indifferibile, puo' essere rilevata d'ufficio, anche se la parte e' decaduta.
(Cassazione penale,sentenza 17/10/2013, n. 42667)
giovedì 10 ottobre 2013
Anatocismo bancario: la Consulta boccia la norma salva-banche
APRIL 24, 2012
Con la Sentenza n° 78 del 2 Aprile 2012, si riapre la possibilità per chi è rimasto “vittima” dell’Anatocismo Bancario di fare ricorso contro le banche per richiederne il rimborso. Infatti la Corte Costituzionale ha bocciato la norma “salva-banche” inserita nel decreto legge Milleproroghe 2010 dichiarandola incostituzionale in quanto viola l’art. 3 della Costituzione: Facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispetta i principi generali, eguaglianza e ragionevolezza ma anche l’art. 117 della Costituzione come si legge nella Sentenza. Non è dato ravvisare quale sarebbero i motivi imperativi di i nteressi generale idoneo a giustificare l’effetto retroattivo.
In precedenza, la Corte dei Conti si era già pronunciata stabilendo che, il cliente vittima di Anatocismo, aveva il diritto di chiedere il rimborso degli interessi anatocistici entro 10 anni dalla chiusura del conto. Il decreto salva-banche invece stabiliva che la scadenza dei 10 anni scattava dal giorno di registrazione contabile dell’addebito illegittimo, ed in pratica siccome l’ Anatocismo è vietato dal 2000, non si poteva piu chiedere il rimborso. Fino alla sentenza n° 78 del 2 Aprile 2012 dove la consulta dichiara incostituzionale il decreto salva-banche.
venerdì 6 settembre 2013
Molestie telefoniche via sms: la Cassazione chiarisce i contorni del reato
Il Supremo Collegio di legittimità, con la sentenza n. 2597/2013, ha preso posizione sulla corretta applicazione dell’art. 660 c.p. da parte dei giudici di prime cure, i quali avevano ritenuto integrato il reato di molestie da parte dell’imputata, la quale, attraverso il mezzo dello Short Message Service (SMS), aveva inviato dei messaggi di testo dal contenuto offensivo al telefono cellulare della persona offesa.
Il giudice del merito aveva ritenuto idonea la suesposta condotta a recare molestia e disturbo al destinatario dei messaggi, soggetto passivo del reato, alterandone in modo significativo le normali condizioni di tranquillità personale e familiare e ponendolo in una condizione di forte disagio. Risultava in tal modo integrata la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 660 c.p., a mente della quale è punito chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo.
Avverso tale sentenza l’imputata ricorreva in Cassazione, sostenendo la scorrettezza della qualificazione della propria condotta in termini di molestia, sulla scorta di due principali argomentazioni: in primo luogo, rilevava la non configurabilità di una lesione dell’ordine pubblico, assunto quale bene giuridico tutelato dalla contravvenzione de qua; in seconda istanza, osservava l’inattitudine del comportamento posto in essere, consistente nell’invio di soli due SMS in ora diurna e da utenza telefonica non celata, a integrare la condotta tipica del reato.
I motivi del ricorso, tuttavia, sono stati giudicati manifestamente infondati. La Corte di Cassazione, quanto alla prima censura, ha rilevato che il reato di molestie si connota per un’intrinseca attitudine plurioffensiva, essendo posto a salvaguardia non solo dell’ordine pubblico, ma della stessa tranquillità della persona offesa. Quest’ultima, intesa come riservatezza e intangibilità della sfera della vita privata, nella fattispecie in parola era stata seriamente perturbata, integrando così il necessario livello di offensività costituzionalmente richiesto ad ogni incriminazione penale.
Sotto il secondo profilo, hanno soggiunto gli ermellini, la condotta tenuta dall’imputata è risultata pienamente idonea a integrare il comportamento penalmente rilevante tratteggiato dall’art. 660 c.p., il quale si sostanzia in un atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nella altrui sfera di libertà, arrecante molestia o disturbo a chi lo subisce (Cass. Pen., Sez. I, 24 novembre 2011, n. 6908).
La molestia, in particolare, consiste in quell’azione capace di incidere negativamente sulla condizione psichica del destinatario, alterandola fastidiosamente o inopportunamente, mentre il disturbo risulta dall'alterazione delle normali condizioni di vita del soggetto passivo del reato (Tribunale di Trento, Penale, 19 ottobre 2011, n. 863).
Ai giudici di legittimità, allora, è apparsa corretta la complessiva sussunzione entro il tratteggiato reato di molestia della condotta dell’imputata, la quale, tramite telefono cellulare, aveva inoltrato messaggi di testo dal contenuto ingiurioso alla persona offesa, a nulla rilevando né il mancato occultamento dell’identità del mittente né l’esiguità numerica degli sms. In forza di un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, la fattispecie contravvenzionale in commento non è configurata dalla legge come necessariamente abituale e, pertanto, è suscettibile di essere commessa anche con una sola azione, cui corrisponde un singolo episodio di disturbo o di molestia (ex multis, Cass. Pen., Sez. I., 16 marzo 2010, n. 11514). Alla luce di tali rilievi, pertanto, la Corte di Cassazione ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso ed ha confermato la condanna a tenore dell’art. 660 c.p.
lunedì 2 settembre 2013
RESPONSABILITA'PROFESSIONALE: l'incertezza sull'esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno
Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza 18 luglio 2013, n. 17573
MEDICI - RESPONSABILITA'PROFESSIONALE: IN CASO DI INCERTEZZA SULL'ESISTENZA DEL NESSO CAUSALE TRA CONDOTTA DEL MEDICO E DANNO, TALE INCERTEZZA RICADE SUL PAZIENTE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BERRUTI Giuseppe Maria - Presidente
Dott. PETTI Giovanni Battista - Consigliere
Dott. AMATUCCI Alfonso - Consigliere
Dott. D'AMICO Paolo - rel. Consigliere
Dott. CARLUCCIO Giuseppa - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 5850/2010 proposto da:
(OMISSIS) (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall'avvocato (OMISSIS) giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 106/2010 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 25/01/2010 R.G.N. 1369/04;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/05/2013 dal Consigliere Dott. PAOLO D'AMICO;
udito l'Avvocato (OMISSIS);
udito l'Avvocato (OMISSIS) per delega;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
(OMISSIS) convenne in giudizio davanti al Tribunale di Pisa l'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) esponendo che durante un lancio con paracadute era rimasto vittima di un infortunio alla gamba destra; che, trasportato al pronto soccorso, riscontrata una frattura, gli era stata praticata una ingessatura e consigliato il ricovero; che egli aveva preferito lasciare l'ospedale.
Dopo circa venti giorni, persistendo forti dolori, si era presentato presso l'ospedale di Carrara dove era stato sottoposto ad un nuovo esame radiografico e gli era stato consigliato un intervento chirurgico immediato che veniva ivi effettuato.
Sosteneva l'attore che il ritardo nel trattamento chirurgico aveva prolungato l'immobilizzazione in gesso a circa tre mesi, ritardando i processi riparativi per l'insorgenza di un quadro algodistrofico con conseguenti postumi permanenti.
Per queste ragioni l'attore, ritenendo che tali postumi avrebbero potuto essere piu' limitati nel caso in cui i sanitari dell'Ospedale pisano, anziche' applicare un apparecchio gessato, avessero proceduto all'immediato intervento chirurgico, chiedeva che l'Azienda convenuta fosse condannata al risarcimento dei danni da esso subiti.
L'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) si costituiva sottolineando che era stato lo stesso attore a rifiutare il ricovero e che tale rifiuto poteva aver aggravato la patologia ed impedito una ulteriore e diversa valutazione dei medici. Contestava quindi il quantum del risarcimento richiesto e chiedeva il rigetto della domanda.
Il Tribunale rigettava le domande attrici.
Proponeva appello il (OMISSIS) con tre motivi.
La Corte d'Appello di Firenze ha rigettato il gravame proposto da (OMISSIS) nei confronti dell'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) avverso la sentenza del Tribunale di Pisa che ha confermato.
Propone ricorso per cassazione (OMISSIS) con due motivi e presenta memoria.
Resiste con controricorso l'Azienda Ospedaliera (OMISSIS).
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo del ricorso (OMISSIS) denuncia "Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso (inesatta esecuzione della prestazione medica) e decisivo per il giudizio (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con conseguente violazione dell'articolo 1218 c.c.)".
Con il secondo motivo si denuncia "Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso (mancato esercizio del dovere di informazione) e decisivo per il giudizio (articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con conseguente violazione dell'articolo 1218 c.c.)".
I motivi, strettamente connessi, devono essere congiuntamente esaminati.
La Corte d'Appello di Firenze ha ritenuto che l'Azienda Ospedaliera abbia effettuato una corretta esecuzione della prestazione medica e, successivamente, di aver dato una adeguata informazione al paziente consigliandogli il ricovero.
Secondo il ricorrente invece, se il ricovero era necessario, bastava disporlo o prescriverlo e non limitarsi a consigliarlo: un consiglio infatti non puo' mai essere vincolante implicando la possibilita' di scelte alternative. L'Azienda doveva pertanto rendere edotto il (OMISSIS) dell'insufficienza del trattamento operato in pronto soccorso per una cura ottimale della patologia.
In conclusione, il ricorrente sostiene di aver dato la prova dell'evento dannoso e dell'inadempimento della struttura sanitaria, mentre quest'ultima non ha provato che egli fu assistito e curato in modo idoneo e professionalmente corretto.
Il motivo e' infondato.
Nel giudizio avente ad oggetto il risarcimento del danno da attivita' medico - chirurgica, l'attore deve infatti provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) ed allegare l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e l'inadempimento qualificato del debitore, astrattamente idoneo a provocare (quale causa o concausa efficiente) il danno lamentato, rimanendo a carico del medico convenuto dimostrare che tale inadempimento non vi e' stato, ovvero che, pur esistendo, esso non e' stato causa del danno.
Ne consegue che se, all'esito del giudizio, permanga incertezza sull'esistenza del nesso causale fra condotta del medico e danno, tale incertezza ricade sul paziente e non sul medico (Cass., 24 gennaio 2013, n. 4792; Cass., S.U., 11 gennaio 2008, n. 577).
Emerge dall'impugnata sentenza che i medici dell'Azienda Ospedaliera (OMISSIS), a seguito di un controllo radiografico, consigliarono il ricovero ospedaliero per proseguire il trattamento della lesione.
La soluzione prospettata non fu perseguita per esclusiva volonta' del paziente che decise di sottrarsi liberamente alle cure della struttura ospedaliera.
La distinzione che il ricorrente tenta di introdurre tra prescrizione del medico, che sarebbe obbligatoria, e consiglio che sarebbe invece opinabile, e' arbitraria. In alcun caso il medico puo' imporre una cura. Essa e' sempre consigliata. E sempre il paziente, debitamente informato, e' libero di seguirla.
Tale decisione costituisce fatto interruttivo del nesso causale fra la condotta dei sanitari e le conseguenze pregiudizievoli ascrivibili al ritardato intervento chirurgico al quale il (OMISSIS) si sottopose presso un'altra struttura ospedaliera, dopo aver lasciato trascorrere circa trenta giorni senza controlli sull'evoluzione della patologia.
Non puo' essere neppure attribuita una responsabilita' all'Azienda Ospedaliera (OMISSIS) per difetto di informazione circa la necessita' di sottoporsi ad un immediato intervento chirurgico, dovendosi ritenere assolto tale dovere con l'indicazione della insufficienza della riduzione incruenta della frattura e della necessita' di proseguire la cura.
La Corte d'Appello, con adeguata motivazione, ha escluso che possa essere sorta una responsabilita' a carico dell'Azienda Ospedaliera, avendo il (OMISSIS) liberamente deciso di sottrarsi alle cure della struttura ospedaliera pisana e di seguire autonomamente il decorso della malattia.
Il ricorrente invece, con le sue doglianze, chiede una revisione del fatto, non consentita in sede di legittimita', in presenza di una congrua motivazione, immune da vizi logici o giuridici.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi euro 3.700,00, di cui euro 3.500,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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sabato 27 luglio 2013
I co.co.pro. dopo il D.L. n.76/2013
Sommario: 1. Premessa. 2. Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (cd. co.co.co). 3. Il contratto di collaborazione a progetto (cd. co.co.pro). 3.1 Nozione e finalità dell’istituto. 3.2. La definizione di progetto. 3.3. Il corrispettivo. 4. Le novità apportate dal D.L. n. 76/2013. 4.1. L’estensione anche ai lavoratori a progetto dell’obbligo di convalida delle dimissioni. 4.2…. e della responsabilità solidale negli appalti.
1.Premessa.
Il decreto legge sul lavoro n. 76/2013, dopo le modifiche apportate dalla legge Fornero[1], sottopone a nuovi ritocchi le disposizioni normative che regolano il contratto di collaborazione a progetto introdotto e disciplinato, per l’impiego privato, dagli artt. 61-69 del D.lgs. 276/2003 (cd. riforma Biagi).
Al fine di comprendere appieno le modifiche apportate a tale tipologia di contratto dal decreto lavoro è opportuno, a parere di chi scrive, tracciare brevemente l’excursus normativo che ha condotto all’introduzione nel nostro ordinamento di tale contratto nonché le sue caratteristiche principali.
2.Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (cd. co.co.co.)
Antecedente storico del contratto di lavoro a progetto (cd. co.co.pro) è il contratto di collaborazione coordinata e continuativa (cd. co.co.co), ovvero quel contratto atipico in cui il collaboratore si impegna a compiere un’opera o un servizio in via continuativa a favore della committente e in coordinamento con quest’ultimo senza che sussista il vincolo di subordinazione[2].
A ben vedere, tale contratto è un contratto di lavoro parasubordinato, intendendosi con questa espressione un contratto di lavoro avente caratteristiche sia del lavoro subordinato sia del lavoro autonomo[3].
La giurisprudenza di legittimità ha precisato che per la configurazione di un rapporto di co.co.co. è necessario che il committente sia titolare di una stabile organizzazione volta alla produzione di beni o di servizi perché solo in relazione a questa si può parlare di prestazione di attività coordinata e continuativa [4].
La mancanza di una definizione codicistica dell’istituto, ha portato sia la dottrina[5] che la giurisprudenza[6] a delinearne i requisiti tipici.
Un primo elemento che caratterizza la prestazione in esame è stato ravvisato nel carattere continuativo e coordinato della collaborazione, precisandosi che per continuità deve intendersi la permanenza nel tempo del vincolo che lega il committente con il collaboratore, mentre per coordinazione la connessione funzionale derivante da un protratto inserimento nell’organizzazione aziendale.
Vi è poi il requisito della personalità della prestazione che ricorre quando l’attività di lavoro risulta prevalente o rispetto a quella svolta da eventuali altri collaboratori dei quali il collaboratore si avvalga o rispetto all’utilizzazione di una struttura di natura materiale.
A seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs 276/03, avvenuta il 24 ottobre 2003, non è più possibile, salvo alcune eccezioni, instaurare rapporti di collaborazione coordinata e continuativa se non sono riconducibili ad uno specifico progetto.
Più in particolare, il contratto di co.co.co, ai sensi della normativa vigente, può essere stipulato solo per i soggetti individuati dalla legge, che sono: i componenti di organi di amministrazione e di controllo delle società e quelli che partecipano a collegi e commissioni; i professionisti esercenti attività per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali; i titolari di pensioni di vecchiaia e i collaboratori coordinati e continuativi che prestano la propria attività a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali[7].
È da precisare, infine, che le collaborazioni coordinate e continuative si distinguono anche dalle prestazioni di lavoro autonomo occasionale, ovvero da quei rapporti di lavoro di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivo per lo svolgimento della prestazione sia superiore a 5.000 euro. In quest’ultimo caso, infatti, non rileva la durata del rapporto e si ricade comunque nell'ambito di applicazione delle disposizioni previste per le nuove collaborazioni coordinate e continuative[8].
3. Il contratto di collaborazione a progetto (cd. co.co.pro).
3.1. Nozione e finalità dell’istituto.
Come già anticipato sopra, le collaborazioni a progetto sono entrate nel nostro ordinamento, per quanto concerne l’impiego privato, con il D.lgs. n. 276/2003, a seguito dell’attuazione dell’articolo 4 della legge delega n. 30/2003 (cd. Legge Biagi).
La ratio sottesa all’introduzione di tale tipologia di contratto è da rinvenire nel tentativo di garantire una maggiore tutela, nel settore privato, al lavoratore assunto attraverso le collaborazioni coordinate e continuative, spesso reiterate in luogo di un contratto a tempo indeterminato. L’obiettivo è, in altri termini, quello di contrastare l’utilizzo non corretto delle co.co.co. che, nella maggior parte dei casi, si rivelavano semplici maschere di rapporti di lavoro subordinato. Anche il contratto di lavoro a progetto, tuttavia, ha finito per essere stato, nella pratica, oggetto di un uso non corretto ed è per questo che è stato recentemente modificato dalla riforma Fornero, nonché, da ultimo, dal decreto occupazione del 2013.
Ai sensi dell’art. 61 del decreto n. 276/2003, per contratto di lavoro a progetto si intende una forma di collaborazione coordinata e continuativa svolta in modo prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione per la realizzazione di uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente.
A ben vedere, la natura e le caratteristiche del contratto di lavoro a progetto sono quelle delle collaborazioni coordinate e continuative con la differenza che esse, in tal caso, devono essere riconducibili ad un progetto.
3.2. La definizione di progetto.
La legge Biagi ha introdotto l’obbligo, per il committente, di indicare nel contratto uno specifico “progetto, programma di lavoro o fase di esso”. Tale indicazione, così come quella di altri elementi[9], deve avvenire per iscritto e la forma scritta è richiesta ai fini della prova.
A ben vedere, il legislatore del 2003 non ha specificato cosa debba intendersi per “progetto, programma di lavoro o fase di esso” e dottrina e giurisprudenza hanno cercato di colmare tale lacuna legislativa, dando luogo a interpretazioni così diverse da creare notevole confusione tra i datori di lavoro[10].
Di qui gli interventi del Ministero del lavoro volti a far chiarezza in ordine al significato da attribuire alle nozioni in commento.
La circolare n.1/2004, ad esempio, ha chiarito che il progetto deve consistere in un'attività produttiva ben determinata o comunque ben identificabile e funzionalmente collegata ad un determinato risultato finale cui il collaboratore partecipa direttamente con la sua prestazione. Il progetto, poi, secondo quanto indicato nel provvedimento ministeriale, può essere connesso all’attività principale o accessoria dell’impresa e le valutazioni e le scelte tecniche ad esso sottese sono insindacabili.
Sulla definizione di progetto è, da ultimo, intervenuta la legge Fornero che, nel modificare la disciplina previgente, elimina il riferimento al programma di lavoro e alle sue fasi e riconduce il co.co.pro. ad un “progetto specifico”. Al fine di rendere più determinato l’oggetto del contratto, il legislatore del 2012, inoltre, precisa che “il progetto deve essere funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale” e non può né “consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente” né “comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono esser individuati dai contratti collettivi (...)”.
Compiti meramente esecutivi e ripetitivi - si legge in una successiva circolare ministeriale[11] - sono da intendersi rispettivamente quelli svolti in assenza di qualsiasi autonomia da parte del collaboratore, realizzandosi nella mera attuazione degli ordini impartiti dal committente, e quelli la cui esecuzione non richiede alcuna indicazione da parte del committente, trattandosi di attività elementari dal punto di vista della loro natura e del loro contenuto. In tale ottica, nella suddetta circolare il Ministero del Lavoro propone ai propri ispettori, a titolo esemplificativo, un elenco di attività “difficilmente inquadrabili nell’ambito di un genuino rapporto di collaborazione”, come, tra gli altri, gli addetti alle pulizie, gli autisti, i baristi e i camerieri, i commessi e gli addetti alle vendite.
La riforma Fornero è intervenuta anche in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata indicazione di uno specifico progetto.
Al riguardo, la disciplina previgente, nel disporre che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto” sono considerati “rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”, aveva determinato un acceso dibattito in dottrina e in giurisprudenza non essendo chiaro se la conversione della collaborazione priva di progetto in rapporto di lavoro subordinato dovesse considerarsi automatica, anche a prescindere dal concreto atteggiarsi del rapporto (presunzione relativa), oppure se la norma ponesse una presunzione relativa, quindi superabile dalla prova contraria[12].
Adesso la nuova formulazione dell’art. 69 del D. lgs n. 276/2003 sembra aver posto fine a tale diatriba. Il legislatore del 2012, infatti, nel sostituire “sono considerati” con “determina” opta per la presunzione assoluta come conferma l’art. 1, comma 24, della Legge n. 92/2012 che precisa che l’art. 69 del D.lgs n. 276/2003 è da interpretarsi “nel senso che l’individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.
Presunzione relativa è, invece, quella prevista nel secondo comma dell’articolo in commento , che considera subordinati i rapporti di collaborazione a progetto la cui prestazione è svolta “con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell'impresa committente”. Ne deriva, secondo il Ministero del Lavoro[13], che il collaboratore può anche svolgere le stesse attività dei lavoratori dipendenti, purché le svolga con modalità organizzative radicalmente diverse, prive cioè dei presupposti della subordinazione.
3.3. Il corrispettivo.
Di rilievo sono altresì le novità introdotte in tema di compenso del collaboratore progetto.
A tale riguardo, il nuovo art. 63 del D.lgs 276/2003, dispone che esso - oltre ad essere proporzionato alla quantità e qualità dell’attività svolta (come già previsto nella disciplina previgente), deve essere fissato, per ciascun settore di attività, in base ai profili professionali tipici del settore e in ogni caso sulla base dei minimi salariali (i minimi tabellari, con esclusione delle altre voci retributive) per le mansioni comparabili svolte dai lavoratori dipendenti.
In assenza di contrattazione collettiva specifica, il compenso non deve essere inferiore alle retribuzioni minime indicate dai contratti collettivi applicati alle figure professionali con competenza ed esperienza analoghe a quelle del lavoratore a progetto[14].
4. Le novità apportate dal D.L. n. 76/2013.
Con il D.L. lavoro n. 76/2013 approvato dal Governo Letta ed entrato in vigore il 28 giugno scorso, il co.co.pro. risulta ulteriormente modificato e rivisitato.
La prima modifica apportata dal decreto occupazione alla tipologia dei contratti in commento riguarda la sostituzione della congiunzione “o” con “e” riferita ai compiti meramente “esecutivi e ripetitivi”[15]. In sostanza, accogliendo un indirizzo già espresso in via amministrativa, i due requisiti non sono più disgiunti nel progetto ma debbono coesistere e possono essere individuati dalla contrattazione collettiva.
Un’altra modifica concerne la soppressione, all’interno dell’art. 62 che disciplina la forma e gli elementi che deve contenere il contratto a progetto, dell’inciso “ai fini della prova”[16], con la conseguenza che l’elencazione degli elementi che deve contenere il contratto diviene tassativa.
Ma le novità di maggior rilievo sono rappresentate dall’estensione anche ai lavoratori a progetto dell’obbligo di convalida delle dimissioni nonché della responsabilità solidale del committente negli appalti.
4.1. L’estensione anche ai lavoratori a progetto dell’obbligo di convalida delle dimissioni.
Il decreto occupazione n. 76/2013 estende anche al lavoratore co.co.pro. (oltre che agli associati in partecipazione) l’obbligo di convalida delle dimissioni dal lavoro introdotte dalla riforma del mercato del lavoro Fornero. Al fine di arginare il fenomeno delle c.d. dimissioni bianco, ossia la deprecabile pratica di far firmare al dipendente, all’atto dell’assunzione, un foglio di dimissioni senza data, in modo da utilizzarle nell’eventualità in cui, successivamente, il datore di lavoro voglia “liberarsi” del lavoratore senza tanti problemi e senza dover per forza ricorrere al pericoloso atto di licenziamento (puntualmente contestato in giudizio), la legge n. 92/2012, infatti, ha previsto l’obbligo di convalidare le dimissioni e le risoluzioni consensuali. In particolare, si prevede che la risoluzione consensuale del rapporto o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice durante il periodo di gravidanza o dalla lavoratrice/lavoratore durante i primi 3 anni di vita del bambino o nei primi 3 anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento, debba essere convalidata dal servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente territorialmente[17]. In caso di adozione internazionale - precisa il legislatore - i 3 anni decorrono dal momento della comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando ovvero della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento. Da questa convalida dipende l’efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro.
La riforma contenuta nel D.L. lavoro ha esteso tale procedura, anche nel caso di dimissioni o risoluzione consensuale di contratto di co.co.pro. o di associazione in partecipazione[18]. Ciò, in pratica, comporta che se il rapporto è anticipatamente risolto da parte del lavoratore prima del suo naturale termine (posto che entrambe le tipologie contrattuali sono per natura e per le legge a tempo determinato o “determinabile”), o per decisione consensuale di entrambe le parti, il recesso va convalidato: Diversamente esso è inefficace.
La procedura per ufficializzare e legittimare la risoluzione è la stessa prevista per i lavoratori dipendenti.
L’estensione della convalida delle dimissioni e della risoluzione consensuale riguarda anche il caso del rapporto della lavoratrice madre e del lavoratore padre, intervenute durante il periodo di gravidanza o entro i primi tre anni di età del bambino o di ingresso in famiglia del minore adottato o affidato.
Il decreto occupazione ha esteso ai lavoratori a progetto in caso di dimissioni dal lavoro in bianco anche il sistema sanzionatorio che si applica nei confronti dei datori di lavoro/committenti che praticano le dimissioni in bianco. Si applica, in particolare la maxi sanzione amministrativa che va dai 5mila a 30mila euro, oltre all’obbligo di convalida delle dimissioni dal lavoro intervenute durante il periodo di gravidanza o entro i tre anni di età del bambino, da parte delle Direzioni territoriali del lavoro. In tutti gli altri casi, la convalida delle dimissioni dal lavoro deve avvenire nei centri per l’impiego. Inoltre, si prevede che se il collaboratore, che intende interrompere anticipatamente il proprio contratto rispetto alla sua naturale scadenza, non la effettua, il committente dovrà rintracciarlo, entro 30 giorni dalla ricezione delle dimissioni, invitandolo all’adempimento nelle sedi indicate o con la sottoscrizione di una dichiarazione di “avallo”, in calce alla comunicazione telematica di cessazione del rapporto, altrimenti le dimissioni si considerano nulle. Il lavoratore può revocare le dimissioni nei sette giorni successivi alla ricezione dell’invito. Se il committente ha già trasmesso la comunicazione preventivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, ma questi dovesse poi cambiare idea e revocare il recesso, occorrerà annullare la trasmissione.
4.2. …e della responsabilità solidale negli appalti.
Come anticipato sopra, l’altra significativa novità introdotta del decreto 76/2013 in materia di riforma del lavoro è rappresentata dall’estensione anche ai lavoratori a progetto della responsabilità solidale del committente negli appalti. L’art. 9, comma I del decreto in esame, infatti, stabilisce espressamente che le disposizioni di cui all’art. 29, comma II della legge Biagi in tema di appalto si applicano “anche in relazione ai compensi e agli obblighi di natura previdenziale e assicurativa nei confronti dei lavoratori con contratto di lavoro autonomo”, mentre non trovano applicazione in relazione ai contratti di appalto stipulato con le pubbliche amministrazioni”.
Il decreto lavoro, in sostanza, estende il regime della responsabilità solidale perché ricomprende anche i contratti a progetto, i vecchi co.co.co, le prestazioni di lavoro occasionale e le prestazioni d’opera professionale.
Tuttavia , queste disposizioni sulla responsabilità solidale - precisa il legislatore del 2013 - non trovano applicazione in tutte le ipotesi in cui il committente del contratto di appalto sia una pubblica amministrazione.
Infine, il decreto lavoro precisa che la facoltà riconosciuta ai contratti collettivi nazionali di lavoro di derogare al regime di solidarietà negli appalti può riguardare solamente i trattamenti retributivi, mentre alcun effetto può derivare in relazione ai contributi previdenziali e assicurativi.
(Altalex, 27 luglio 2013. Articolo di Elisa Cinini)
_________________
[1] Art. 1, commi 23-27, Legge n. 92/2012.
[2] Il contratto di collaborazione coordinata e continuativa non ha mai avuto una sua specifica definizione legislativa. Fino all’entrata in vigore del decreto legislativo n. 276 del 2003 l’espressione veniva utilizzata in tre distinte norme: l’articolo 2 della legge n. 241 del 1959, recante delega al Governo per la fissazione di minimi di trattamento anche per tali rapporti; l’articolo 409 del codice di procedura civile, introdotto con la legge n. 533 del 1973, che al n. 3 prevede l’applicazione delle norme in materia di controversie di lavoro anche a tali rapporti; ed, infine, la previsione dell’assimilazione ai redditi di lavoro dipendente in materia tributaria, stabilita dall’articolo 50, comma 1, lettera c) bis TUIR.
[3] Sulla distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato v., cfr., Cass. n. 9812 del 14 aprile 2008, in cui è stato espressamente affermato che l'elemento decisivo per contraddistinguere il rapporto di lavoro subordinato dal lavoro autonomo è l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro. Ulteriori indici di subordinazione, che potranno essere presi in considerazione dal giudice di merito, possono essere l'assenza del rischio d'impresa, la continuità della prestazione, l'obbligo di osservare un orario di lavoro, la cadenza e la forma della retribuzione, l'utilizzazione di strumenti di lavoro e lo svolgimento della prestazione in ambienti messi a disposizione dal datore di lavoro.
[4] Così Cass. n. 6319 del 17/7/1987.
[5] Cfr., Sandulli P., In tema di collaborazione autonoma continuativa e coordinata, in Dir. lav., I, 1982, p. 247.
[6] Cfr. Cass n. 5698 del 19 aprile 2002.
[7] Art. 61, III comma, D.lgs n. 276/2003. La circostanza che le collaborazioni coordinate e continuative trovano applicazione per i soggetti adesso menzionati è confermato, del resto, anche dalla circolare del Ministero del lavoro n. 1/2004. Tale provvedimento, peraltro, giustifica tali esclusioni evidenziando che la disciplina di cui all’art. 61 è finalizzata ad impedire l’utilizzo improprio o fraudolento delle collaborazioni coordinate e continuative, per cui ben possono collocarsi al di fuori del campo di applicazione dell’art. 61 tutte quelle fattispecie che non presentano significativi rischi di elusione della normativa inderogabile del diritto del lavoro.
[8] Art. 61; II comma, D. lgs n. 276/2003.
[9] Art. 62 Forma.
1. Il contratto di lavoro a progetto e' stipulato in forma scritta e deve contenere, ai fini della prova, i seguenti elementi:
a) indicazione della durata, determinata o determinabile, della prestazione di lavoro;
b) indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata nel suo contenuto caratterizzante, che viene dedotto in contratto;
c) il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione, nonché' i tempi e le modalità di pagamento e la disciplina dei rimborsi spese;
d) le forme di coordinamento del lavoratore a progetto al committente sulla esecuzione, anche temporale, della prestazione lavorativa, che in ogni caso non possono essere tali da pregiudicarne l'autonomia nella esecuzione dell'obbligazione lavorativa;
e) le eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore a progetto, fermo restando quanto disposto dall'articolo 66, comma 4.
[10] Per averne un’idea delle diverse letture che la dottrina ha dato alla nozione di progetto è interessante la sentenza del Tribunale di Genova del 7.4.2006 che ha fatto una sintesi di tali interpretazioni. Per quanto concerne, invece, gli orientamenti giurisprudenziali sul punto v., cfr., Tribunale di Milano 2/8/2006 e Tribunale di Genova 7/4/2006.
[11] Circolare ministeriale n. 29/2012.
[12] In dottrina sembrava preferire quest’ultima soluzione, cfr., Santoro Passarelli G., Lavoro parasubordinato, lavoro coordinato, lavoro a progetto, in De Luca Tamajo R.– Rusciano M – Zoppoli L., Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema. Dalla legge 14 febbraio 2003 n. 30 al decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276, Napoli, Esi, 2004, pp. 187 ss. e, in particolare, p. 203. Quanto alla giurisprudenza., cfr., Corte app. Firenze 26/1/2010. Anche il Ministero del lavoro, con la circolare n. 1/2004, ha abbracciato la tesi della presunzione relativa affermando che la presunzione di cui all’art. 69, c. 1, può essere superata qualora il committente fornisca, in giudizio, prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro effettivamente autonomo. Propendono, invece, per la tesi della presunzione assoluta cfr., Trib. Milano 2/8/2006 e Trib. Milano 5/2/2007.
[13] Circolare ministeriale n. 29/2012.
[14] Art. 63, II comma, D. lgs n. 276/2003.
[15] Art. 7, II comma, lettera c), D.L. n. 76/2013.
[16] Art. 7, II comma, lettera. d), D.L. n. 76/2013.
[17] Art. 4, commi 16-23, Legge n. 92/2012.
[18] Con l’art. 7 comma 5 lett. d) del D.L. n. 76/2013, si aggiunge all’art. 4 della legge 92/2012 il comma 23 bis secondo il quale le disposizioni di cui ai commi da 16 a 23 (inerenti alla convalida delle dimissioni e della risoluzione consensuale, anche durante il periodo di gravidanza e durante i primi tre anni di vita del bambino anche adottato o in affidamento) trovano applicazione, in quanto compatibili, anche alle lavoratrici e ai lavoratori impegnati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, di cui all’articolo 61, comma 1, del D. Lgs. n. 276/2003 e con contratti di associazione in partecipazione di cui all’articolo 2549, secondo comma, del codice civile.
mercoledì 24 luglio 2013
La Consulta dichiara illegittimo l'art. 19 dello Statuto dei lavoratori
La Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza n. 231/2013 con cui è stata sancito l’incostituzionalità dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, il cui dispositivo era già stato reso il 3 luglio 2013.
Il giudizio è stato promosso, in via incidentale, dalle ordinanze di rimessione dei Tribunali di Vercelli, Modena e Torino ed ha riguardato la lesione del diritto di libertà di sindacale; in particolare, era stato disconosciuto ai lavoratori della Ferrari di Modena il diritto a costituire rappresentanze sindacali perché non avevano sottoscritto il contratto di lavoro collettivo, al quale avevano partecipato attivamente ai negoziati.
L’art. 19, lett. B) l. 300/1970 prevedeva che i diritti in contestazione dovessero essere prerogativa esclusiva delle sole organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi
La Corte ha affermato che i dubbi circa l’illegittimità dell’art. 19 erano sorti già dagli anni ’80 e che ripetutamente, la stessa Corte, è intervenuta con sentenze di monito per indirizzare il Legislatore, già dalla sentenza n. 1/1994, ed invitarlo a mutare il dettato normativo.
I sindacati dotati della c.d. “maggiore rappresentatività” erano i soli privilegiati a godere dei diritti sindacali attribuiti dallo Statuto.
L’illegittimità si è palesata, pertanto, per l’esclusione dal godimento dei diritti in azienda del sindacato non firmatario di contratti collettivi , ma concretamente rappresentante dell’effettivo consenso dei lavoratori.
Sebbene la Corte fosse già intervenuta con una sentenza interpretativa adeguatrice con cui ha interpretato in modo estensivo tale articolo, affermando che anche ai sindacati meramente “firmatari” si applicassero i diritti di cui all’art. 19, indipendentemente dal fatto che avessero o meno partecipato ai negoziati, salvando in questo modo la norma, a fronte del mutato contesto delle relazioni sindacali la Corte ha dovuto sancire l’illegittimità definitiva.
La Corte ha affermato che l’art. 19 si pone in contrasto con i principi essenziali della Costituzione, violando l’art. 2, 3 e 39 Cost.
Infatti, nel momento in cui vien meno alla sua funzione di selezione dei soggetti sindacali in relazione alla loro concreta ed effettiva rappresentatività, anche a livello aziendale, il criterio della sottoscrizione del contratto, da parte di soggetti non rappresentativi, viene inevitabilmente a scontrarsi con i canoni costituzionali.
L’art. 19 ha violato l’art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza e della disparità di trattamento tra le organizzazioni sindacali, alcune delle quali sarebbero privilegiate o discriminate non in relaziona alla loro concreta rappresentatività, bensì solo in base al rapporto con i vertici aziendali, per aver o meno prestato il proprio consenso alla sottoscrizione del contratto, violando altresì il pluralismo e la libertà di azione dei sindacati, i quali, a fronte della concreta rappresentatività, nelle ipotesi di un denegato accesso al tavolo delle trattative, si pone in contrasto con l’estromissione da qualsiasi tutela sindacale, collegata automaticamente alla mancata sottoscrizione del contratto.
Ciò configura, pertanto, una sanzione al dissenso ed alla libertà di dire “no” dei sindacati che , non accettando il contratto, vengono esclusi dalla tutela del 19.
La Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 19 in quanto non riconosce la rappresentanza sindacale ai sindacati non firmatari dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, i quali abbiano, però , partecipato attivamente alle negoziazioni.
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martedì 16 luglio 2013
Notifiche per posta fatte da Equitalia: nulle anche per il Tribunale di Lecce -
12 LUGLIO 2013 DI REDAZIONE
Nonostante la Cassazione continua a ritenere che le notifiche per posta fatte dall’Agente della riscossione siano valide, si allarga il numero dei giudici di merito che, invece, le ritengono nulle o inesistenti: contribuente graziato anche se l’atto raggiunge il suo scopo.
Si amplia il numero di giudici di merito che ritengono tutte nulle le notifiche delle cartelle esattoriali fatte da Equitalia a mezzo posta. Alla nutrita schiera di precedenti, oggi si aggiunge anche quello del Tribunale di Galatina (sezione distaccata del Tribunale di Lecce) [1].
Facciamo, innanzitutto, una ricognizione dei giudici che, sino ad oggi, hanno ritenuto nulle le notifiche delle cartelle esattoriali effettuate direttamente da Equitalia attraverso il postino (ossia dentro le buste bianche inviate con raccomandata a.r.). In passato vi abbiamo fornito i precedenti dei seguenti tribunali:
- Tribunale di Torino (leggi: “Notifiche fatte direttamente da Equitalia: un’altra sentenza ne dichiara l’inesistenza”);
- Commissione Tributaria Provinciale di Parma (leggi: “Cartelle Equitalia: tutte nulle le notifiche a mezzo posta dai dipendenti?”);
- Commissione Tributaria Provinciale di Vicenza (leggi: “Equitalia e vizi di notifica: sempre più giudici annullano le cartelle esattoriali”);
- Commissione Tributaria Provinciale di Campobasso (leggi: “Notifiche di cartelle esattoriali: tutti i giudici sono contro Equitalia”);
- Giudice di Pace di Genova (leggi: “Equitalia: inesistente la notifica per posta di cartelle esattoriali. Precedente favorevole al cittadino”);
- Commissione Tributaria Provinciale di Lecce (leggi: “Nulle tutte le cartelle di Equitalia per difetto di notifica”).
Ora, a confermare questo indirizzo è anche il Tribunale di Galatina che ha appena sottolineato: è da considerarsi inesistente la notifica della cartella di pagamento compiuta da Equitalia mediante raccomandata con avviso di ricevimento. L’agente della riscossione, infatti, non può più usarla dall’1 luglio 1999 [2]. Pertanto, tutte le notifiche successive a tale data sono da ritenersi invalide!
Prima delle modifiche apportate nel 1999, la legge sulla riscossione specificava che le notifiche dovessero essere fatte “da parte dell’esattore”: ma questa espressione è stata ormai abrogata quattordici anni orsono. Ciò significa che il legislatore ha voluto impedire che l’Agente della riscossione potesse utilizzare la strada delle notifiche con raccomandata a.r., altrimenti non avrebbe soppresso tale frase dal testo.
Al contrario, l’attuale formulazione della norma – insiste il Tribunale di Galatina – “indica tassativamente i soggetti che sono abilitati all’espletamento dell’attività di notificazione della cartella di pagamento e dell’avviso di mora”. Ed essi possono essere soltanto:
1) gli ufficiali della riscossione
2) gli agenti della Polizia Municipale
3) i messi Comunali, previa convenzione tra Comune e Concessionario;
4) gli altri soggetti abilitati dal Concessionario nelle forme previste dalla legge.
Tali soggetti sarebbero gli unici autorizzati, a partire dal 1° luglio 1999, a procedere alla notifica della cartella esattoriale.
Insomma: Equitalia, osserva ancora il Giudice, non può estendere la norma fino ad attribuirsi la facoltà di usare la raccomandata con un invio “anonimo e impersonale”, che non consente alcuna “forma di verifica sul rispetto della procedura”, laddove “si ritenesse sufficiente l’esibizione da parte del concessionario del solo avviso di ricevimento”.
L’atto ha compiuto il suo scopo
Equitalia, costituendosi in questo genere di cause, in cui viene sollevato il vizio di notifica della cartella esattoriale, invoca l’applicazione del principio secondo cui, quando l’atto raggiunge il suo scopo – ossia perviene, in un modo o nell’altro, anche se illegittimo, nelle mani del destinatario – esso non è più impugnabile, proprio perché la notifica ha comunque realizzato il suo obiettivo.
È una tesi, però, che non trova sempre accoglimento. Al contrario, molti giudici ritengono che, in questi casi, la notifica non sia nulla, bensì inesistente e, in caso di inesistenza, nessun vizio può essere sanato, anche se la notifica arriva di fatto al suo destinatario. In più, il giudice di Galatina sostiene che la notifica della cartella di pagamento non ha l’unica finalità di far conoscere l’atto al contribuente, dal momento che si tratta un atto unilaterale recettizio e quindi la notifica ha la funzione di perfezionarne l’esistenza giuridica.
IN PRATICA
Attenzione. Al contrario dei giudici di merito appena elencati, la Cassazione continua a sostenere la tesi opposta, ossia quella della validità di tali notifiche a mezzo raccomandata.
Pertanto è consigliabile, prima di intraprendere il giudizio, di valutare bene le possibilità che la controparte, qualora sconfitta, trascini il contribuente fino all’ultimo grado, davanti alla Suprema Corte. Cosa che, normalmente, per piccoli importi difficilmente capita.
[1] Trib. Galatina, sent. n. 204/2013.
[2] In base alle modifiche subite nel tempo dall’articolo 26 del Dpr 602/73, infatti, deve ritenersi che, dal lontano 1 luglio 1999 l’agente della riscossione (un tempo “esattore”) abbia perso la facoltà di eseguire la notificazione mediante la lettera con ricevuta di ritorno.
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venerdì 14 giugno 2013
La Corte di Cassazione su mutui e interessi c.d. usurari
La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 350 del 9 gennaio 2013, ha reso una pronuncia in materia di mutui e, precisamente, in tema di interessi.
Il mutuo è un contratto tipico, con il quale una parte, detta mutuante, consegna all'altra, detta mutuataria, una somma di denaro o una quantità di beni fungibili, che l'altra si obbliga a restituire successivamente con altrettante cose della stessa specie e qualità.
L’istituto trova espressa disciplina nel codice civile all’art. 1813 e seguenti.
Il mutuo, solitamente, viene stipulato con un istituto creditore e, in tal caso, sono assai frequenti i mutui c.d. onerosi, tuttavia, possono essere stipulati anche mutui gratuiti (senza interessi).
Il contratto di mutuo ha natura reale, dal momento che, come detto, prevede la consegna alla parte mutuataria di un dato bene che, solitamente, consiste in una somma di denaro.
La prassi quotidiana conosce i tipici casi di mutuo ipotecario o fondiario, ma questi non sono i soli tipi mediante i quali è possibile ricorrere al credito: esistono altre figure come ad esempio l’apertura di credito in conto corrente che persegue finalità analoghe a quelle del contratto di mutuo.
Uno degli elementi che contraddistinguono i mutui c.d. onerosi consiste nell’obbligo per la parte mutuataria di rientrare del debito sorto a seguito della stipula del contratto di mutuo, restituendo alla parte mutuante, oltre al capitale, anche una somma a titolo di interessi.
A tal proposito, il mutuo può essere stipulato mediante la previsione di un tasso di interessi fisso o di un tasso di interessi variabile.
La determinazione degli interessi deve essere effettuata nel rispetto del tetto stabilito nel Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze (ora per il periodo gennaio-marzo 2013, il decreto è stato emesso in data 21.12.2012 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 28.12.2012, serie generale n. 301).
Nel caso in cui non vengano rispettate le soglie ivi indicate, gli interessi sono considerati di tipo usurario.
Le pattuizioni convenute in sede di stipula di contratto rimarranno poi invariate per tutta la durata dello stesso, salvo la possibilità, oggi ammessa, di surrogare l’istituto creditore con uno nuovo che offre condizioni più competitive.
La pronuncia resa dalla Suprema Corte di Cassazione, ove sono stati qualificati come usurari gli interessi dovuti dal privato in maggiorazione ad interessi moratori già determinati, sulla considerazione che gli stessi superavano il limite stabilito dalla legge in materia, riguarda il caso nel quale la banca mutuante è stata convenuta in giudizio in quanto, ad avviso della parte attrice, già parte mutuataria, “il tasso applicato al contratto di mutuo con garanzia ipotecaria stipulato il 19.9.1996 per l'acquisto della propria casa era da considerare usurario”.
In primo grado, il tribunale adito rigetta la domanda in base al disposto di cui all’art. 2 della legge 108/1996, in virtù del quale, “per la determinazione degli interessi usurari i tassi effettivi globali medi rilevati dal Ministero del Tesoro ai sensi della citata legge devono essere aumentati della metà.
Considerato che il D.M. 27 marzo 1998, emesso dal Ministero del Tesoro, prevedeva per la categoria dei mutui il tasso dell'8.29%, ha quindi, escluso che il tasso contrattualmente fissato potesse essere ritenuto usurario.”.
Tale posizione viene successivamente confermata in appello.
La questione giunge poi in Cassazione ove viene proposto ricorso: la Corte accoglie il profilo rilevato dall’istante e relativo all’usurarietà dei tassi.
La parte ricorrente aveva dedotto che l'interesse pattuito (inizialmente fisso e poi variabile) era del 10.5%, in contrasto con quanto previsto nel D.M. 27 marzo 1998, che indica il tasso praticabile per il mutuo nella misura dell'8.29%.
Tale tasso, infatti, sarebbe usurario a norma della legge n. 108 del 1996, art. 1, comma 4, in particolare, in base alla considerazione che il mutuo fu richiesto per l'acquisto di un bene primario, quale la casa di abitazione, e sul presupposto che dovrebbe tenersi conto della prevista maggiorazione di 3 punti in caso di mora.
A tal proposito, i tassi sono qualificabili come usurari nel caso in cui, a qualunque titolo, superino il limite stabilito dalla legge, e ciò secondo la prescrizione data dall’art. 1 del Decreto Legge 29 dicembre 2000, n. 394 (Interpretazione autentica della legge 7 marzo 1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura. GU n.303 del 30 dicembre 2000, convertito con modificazioni dalla L. 28 febbraio 2001, n. 24. G.U. 28 febbraio 2001, n.49).
Secondo i giudici, la circostanza che il mutuo è stato contratto per l’acquisto della casa sarebbe irrilevante, e ciò in base alla circostanza di cui all’art. 644, comma terzo, codice penale, secondo il quale sono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge ovvero "gli interessi, anche se inferiori a tale limite, e gli altri vantaggi o compensi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e al tasso medio praticato per operazioni similari, risultano comunque sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o di altra utilità, ovvero all'opera di mediazione, quando chi li ha dati o promessi si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria".
L’art. 1 del Decreto Legge 29 dicembre 2000, n. 394, a tal proposito, evidenzia che il momento rilevante è quello nel quale gli interessi sono promessi o convenuti.
La norma da ultimo richiamata è del seguente tenore: “Ai fini dell'applicazione dell'articolo 644 del codice penale e dell'articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento.”.
L’inciso “a qualunque titolo” consente pertanto di ricondurre alla definizione resa anche gli interessi moratori dovuti in seguito alla stipula di un contratto di mutuo (Corte cost. 25 febbraio 2002 n. 29: "il riferimento, contenuto nel D.L. n. 394 del 2000, art. 1, comma 1, agli interessi a qualunque titolo convenuti rende plausibile - senza necessità di specifica motivazione - l'assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori"; Cass., n. 5324/2003).
Il secondo comma dell’art. 1815 cod.civ., a tal proposito, afferma che “Se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”.
Conseguenza di una simile pattuizione, tuttavia, è l’operatività della prescrizione penale in materia, dal momento che integra il reato di usura perseguibile penalmente ai sensi dell’art. 644 cod.pen.
In breve, con l’importantissima pronuncia resa, la Suprema Corte di Cassazione ritiene che, al fine di classificare un mutuo come usurario, per la determinazione del c.d. tasso soglia, rilevano anche il tasso di mora nonché le altre spese sostenute dalla parte mutuataria qualora, sommate, sconfinino oltre le determinazioni stabilite dal Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze vigente.
La sentenza in commento tra lo spunto per effettuare talune riflessioni relative all'andamento del mercato dei mutui ed all'erogazione degli stessi.
L'attuale crisi economica, infatti, ha avuto ripercussioni anche nell'erogazione dei mutui per cui vengono oggi effettuati controlli più stringenti da parte degli istituti di credito rispetto a ciò che accadeva in passato.
Il mercato dei mutui rimane, tuttavia, ancora competitivo, nel senso che, ove un istituto di credito si astiene dall'accoglimento della domanda di mutuo, un altro sarà invece disposto a concederlo, salvo che la condizione del richiedente non sia patologica e, quindi, sia palesemente evidente il suo futuro inadempimento all'obbligazione di restituire il capitale mutuato, oltre agli interessi.
CARCERE PER CHI UCCIDE VOLONTARIAMENTE IL CANE CON UN CALCIO.
Nutre astio verso il padrone e gli uccide volutamente il cane con un calcio. Reato di maltrattamento di animali con crudeltà e volontarietà. Nessuna pena sostitutiva a quella detentiva. Carcere per l'autore del fatto.
Corte di Cassazione sentenza del 13 Giugno 2013 n. 25899.
martedì 11 giugno 2013
Mutui: il tasso di interesse è usurario anche se la soglia di legge è superata per effetto della mora
La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 350 del 9.1.2013, ha fissato un importante principio in tema di determinazione dell’usurarietà del tasso d’interesse applicato dagli istituti di credito all’atto della stipula di un contratto di mutuo.
Uno degli elementi che contraddistinguono i finanziamenti c.d. onerosi consiste, infatti, nell’obbligo per la beneficiaria di rimborsare il debito assunto, restituendo alla banca mutuante, oltre al capitale, anche una somma per interessi.
L’art. 1815, co. 1, c.c., infatti, dispone che “salvo diversa volontà delle parti, il mutuatario deve corrispondere gli interessi al mutuante”.
Il tasso applicabile deve, però, essere concordato nel rispetto del tetto stabilito trimestralmente dal Ministero del Tesoro, sentiti la Banca d'Italia e l'Ufficio italiano dei cambi.
Il limite è fissato attraverso la rilevazione del tasso effettivo globale medio, comprensivo di commissioni, di remunerazioni a qualsiasi titolo e spese, escluse quelle per imposte e tasse, riferito ad anno, degli interessi praticati dalle banche e dagli intermediari finanziari (art. 2, co. 1, L. 7.3.1996, n. 108).
Il superamento della soglia di legge configura un illecito penale, punibile ai sensi dell’art. 644, c.p. e rende nulla la clausola contrattuale che ha previsto il tasso, ex art. 1815, co. 2, c.c., giustificando la non debenza degli interessi concordati.
La Suprema Corte, con la sentenza in commento, ha precisato che devono intendersi usurari, ai fini dell’applicazione degli artt. 644, c.p., e 1815, c.c., i tassi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono convenuti, a qualunque titolo, quindi anche se relativi ad interessi moratori.
Ne deriva che questi ultimi concorrono, insieme agli altri oneri posti a carico della parte mutuataria, alla determinazione del tasso complessivo da rapportare a quello soglia (cfr., in proposito, anche Cass. civ., 4.4.2003, n. 5324).
Per stabile se si configura l’usura, occorre avere riguardo al momento in cui gli interessi derivanti dal mutuo sono stati convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente da quando sia richiesto il loro pagamento (art. 1, co. 1, DL 29.12.2000, n. 394, convertito nella L. 28.2.2001, n. 24, recante l’interpretazione autentica della L. 7.3.1996, n. 108, recante disposizioni in materia di usura; al riguardo, cfr., anche Corte Cost., 25.2.2002, n. 29).
In conclusione, le clausole contrattuali che stabiliscano tassi d’interesse ordinari e di mora, la cui somma superi il valore soglia ex art. 2, co. 1, L. 7.3.1996, n. 108, sono nulle, senza inficiare il negozio nella sua interezza.
Il beneficiario del finanziamento ha, dunque, diritto ad ottenere la restituzione degli interessi già versati o, quantomeno, di quelli corrisposti in misura superiore al dovuto, rimanendo valido il mutuo contratto.
L’art. 1419, co. 3, c.c., statuisce, infatti, che “la nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”.
lunedì 3 giugno 2013
Eternit, condanna di 18 anni per l'imprenditore Schmidheiny

giovedì 30 maggio 2013
CARTELLA ESATTORIALE- IMPUGNAZIONE.
In materia di impugnazione della cartella esattoriale, la tardività della notificazione della cartella non costituisce vizio proprio di questa, tale da legittimare in via esclusiva il concessionario a contraddire nel relativo giudizio: la legittimazione passiva spetta pertanto all'ente titolare del credito tributario e non già al concessionario, sul quale, se è fatto destinatario dell'impugnazione, incombe l'onere di chiamare in giudizio l'ente predetto, se non vuole rispondere all'esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d'ufficio l'integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile nella specie un litisconsorzio necessario.
Corte di cassazione, sentenza del 29 Maggio 2013 n. 13331.
mercoledì 22 maggio 2013
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e obbligo di repechage
Prima di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, il datore deve verificare la possibile assegnazione ad altre mansioni (obbligo di repechage)
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Il cosiddetto obbligo di "repechage" è correlato alla tematica del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Precisiamo, quindi, cosa si intende per licenziamento per giustificato motivo oggettivo: è il licenziamento determinato "da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" (arricolo 3 della Legge 15 luglio 1966, n. 604).
Tali ragioni possono dipendere da:
specifiche esigenze aziendali. Ad esempio, una riorganizzazione aziendale che comporti la soppressione del posto occupato da un determinato dipendente. L'ipotesi di riassetto organizzativo attuato per la più economica gestione dell'impresa, è rimesso alla valutazione del datore di lavoro, senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall'articolo 41 della Costituzione, mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto dall'imprenditore (Cassazione, sentenze nn. 4670/2001; 13021/2001; 21282/2006; 24235/2010). Riguardo la soppressione delle mansioni assegnate al lavoratore, come motivo oggettivo di licenziamento, la Cassazione ha precisato che non è necessario che vengano soppresse tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, ma è sufficiente che vengano soppresse quelle prevalentemente esercitate dal lavoratore, tali da connotarne fa posizione lavorativa (Cassazione, sentenza del 06 luglio 2012, n. 11402).
da situazioni riferibili al lavoratore, ma a lui non addebitabili in termini di inadempimento (ad esempio, la sopravvenuta inidoneità fisica all'esercizio delle mansioni contrattuali - Cassazione, Sezioni Unite, sentenza del 7 agosto 1998, n. 7755).
Qualora il lavoratore impugni il licenziamento, il datore di lavoro dovrà dimostrare, ai sensi dell'articolo 5 della Legge n. 604/66, non solo l'effettiva esistenza del giustificato motivo oggettivo, ma anche di non poter ragionevolmente utilizzare il dipendente in altre mansioni equivalenti o, in mancanza, anche in mansioni inferiori (senza che ciò comporti rilevanti modifiche organizzative comportanti ampliamenti di organico o innovazioni strutturali).
L'obbligo di verificare la possibile assegnazione ad altre mansioni è denominato "obbligo di repechage".
La giurispredenza ritiene che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo a condizione che non risulti meramente strumentale a un incremento di profitto.
Deve piuttosto essere diretto a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti.
Il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare la concreta riferibilità del licenziamento individuale a iniziative collegate a effettive ragioni di carattere produttivo e organizzativo, nonchè l'impossibilità di utilizzare il lavoratore stesso in altre mansioni equivalenti a quelle esercitate prima della ristrutturazione (Cassazione, sentenza del 18 aprile 2012, n. 6026).
La Cassazione ha precisato che l'onere di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, concernendo un fatto negativo, va assolto mediante la dimostrazione di fatti positivi corrispondenti, quali la circostanza che i residui posti di lavoro, riguardanti mansioni equivalenti, fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati da altri lavoratori, ovvero che, dopo il licenziamento e per un congruo periodo, non sia stata effettuata alcuna nuova assunzione nella stessa qualifica dei lavoratori licenziati (in tal senso, Cassazione, sentenza del 18 aprile 2012, n. 6026; Cassazione, sentenza n. 7717/2003).
Va anche evidenziato che l'onere di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore allo svolgimento di altre mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza, pur gravando interamente sul datore di lavoro e non potendo essere posto a carico del lavoratore, implica comunque per quest'ultimo un onere di deduzione e allegazione della possibilità di essere adibito ad altre mansioni, sicché ove il lavoratore ometta di prospettare nel ricorso tale possibilità, non insorge per il datore di lavoro l'onere di offrire la prova sopraindicata (Cassazione, sentenza n. 6556/2004; Cassazione, sentenza n. 24235/2010).
LE AUTO GRAVATE DA FERMO AMMINISTRATIVO O GIUDIZIARIO NON PAGANO IL BOLLO
Gli autoveicoli gravati da Fermo Amministrativo o giudiziario non sono soggette al pagamento del bollo regionale,se richiesto si viola la competenza statale in materia di tributi erariali,le Regioni non possono richiedere o imporre l'obbligo del pagamento del bollo auto.Lo sancisce la sentenza 288/2012 della Corte Costituzionale,che ha dichiarato illegittimo l'art. 10 della Legge Regione "Marche" datata 28 -12-2011 n° 28 , che aveva escluso, con decorrenza dall'anno di imposta 2012, l'esenzione dall'obbligo di pagamento della tassa automobilistica regionale per i beni mobili registrati sottoposti a fermo amministrativo o giudiziario. Questo onere è un gettito che va alle Regioni, ma che resta di esclusiva competenza statale, con la conseguenza che devono essere rispettati i criteri fissati dal legislatore nell'esclusione delle esenzioni. In sostanza le Regioni non possono richiedere il pagamento della tassa automobilistica se questa va a riferirsi ad un autoveicolo su cui grava un Fermo Amministrativo. La tassa è dovuta di nuovo dal momento in cui il gravame viene pagato e la nota di liberatoria viene trascritta al P.R.A ( pubblico registro automobilistico )
venerdì 17 maggio 2013
“ABOGADOS”, L’ANTITRUST BOCCIA I PALETTI DEGLI ORDINI: LIMITANO LA CONCORRENZA
L’Antitrust dà ragione agli “abogados”. Gli ordini di Civitavecchia, Latina, Tempio Pausania, Tivoli e Velletri sono stati sanzionati per aver limitato la concorrenza introducendo “requisiti generali ed astratti, non previsti né richiesti dalla normativa nazionale e comunitaria” per l’iscrizione dei legali alla sezione speciale degli “avvocati stabiliti”.
Così l’Autorità Antitrust, concludendo una istruttoria avviata il 14 dicembre 2010, ha diffidato gli Ordini dal porre in essere in futuro comportamenti analoghi e li ha sanzionati con una multa “simbolica” di 1.000 euro ciascuno. Gli Ordini hanno revocato le determinazioni contestate.
Le limitazioni censurate
I Consigli degli Ordini degli Avvocati di Velletri, Civitavecchia, Latina e Tivoli avevano, infatti, introdotto, come condizioni per l’iscrizione alla sezione Speciale: il superamento di una prova “attitudinale” sul diritto italiano e di un colloquio nella lingua del paese comunitario di provenienza. Inoltre, gli aspiranti legali dovevano provare di avere effettivamente esercitato professione all’estero per almeno un anno (nel caso di Civitavecchia, la prova doveva essere fornita anche attraverso dichiarazione dei redditi relative al periodo di permanenza all’estero). Mentre il Consiglio dell'Ordine di Tempio Pausania, aveva addirittura previsto una "tassa" una tantum di 1.500 euro e la previsione di un colloquio nella lingua del paese di provenienza (l’importo serviva appunto a coprire le spese dell’interprete).
Comportamento scorretto
Dunque, osserva l’Antitrust, diversamente da quanto previsto dalla normativa nazionale (legge 96/2001 in attuazione della direttiva 98/5/CE), che richiede ai fini dell’iscrizione nella Sezione speciale la sola attestazione dell’avvenuta iscrizione presso l’organizzazione professionale del paese di provenienza, i COA “hanno, con modalità differenti, subordinato l’iscrizione alla sezione speciale alla necessaria “prova”, da parte degli istanti, dell’effettivo svolgimento di attività professionale nel paese di provenienza”.
Giurisprudenza univoca
Anche la giurisprudenza comunitaria e nazionale sono concordi sul punto e sottolineano con chiarezza che l’iscrizione debba essere subordinata “esclusivamente” alla produzione della documentazione dell’iscrizione presso la corrispondente Autorità di un altro Stato membro e che, pertanto, deve ritenersi illegittimo “ogni ostacolo frapposto, al di fuori delle previsioni della normativa comunitaria, al riconoscimento, nello Stato [ospitante], del titolo professionale ottenuto dal soggetto nello Stato [di origine]” (Cassazione a Sezioni unite n. 28340/2011).
Si salvano Roma e Milano
Con la stessa delibera, approvata il 23 aprile 2013, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha invece stabilito che i Consigli degli Ordini di Chieti, Matera, Modena, Milano, Roma, Sassari e Taranto non hanno violato la normativa a tutela della concorrenza in quanto si sono limitati ad effettuare verifiche mirate al controllo di posizioni individuali in casi isolati e specifici.
Possibile il ricorso al Tar
Contro il provvedimento dell’Authority può essere presentato ricorso al Tar del Lazio entro sessanta giorni. E non si è fatta attendere la reazione dell’Anai che ha espresso «piena adesione al comportamento degli Ordini», chiedendo di impugnare il provvedimento « anche per contrasto con il dettato Costituzionale che impone nel nostro paese l'esame di Stato».
ANAI: Antitrust, da impugnare la sanzione agli ordini sugli abogados
Abogados con vecchia formula fino al 31 ottobre 2013
Dal 2011, con l’entrata in vigore della ley 34/2006, anche in Spagna sono cambiate le regole per l’accesso alla professione, ed è diventato necessario affrontare un periodo di formazione professionale specializzata e superare, come nel resto d’Europa, un esame. Tuttavia, per via del regime transitorio, fino al 2013, coloro che hanno conseguito la laurea prima del 31 ottobre 2011, purché facciano richiesta di iscrizione all’Albo entro il 31 ottobre 2013, potranno comunque beneficiare del vecchio regime.
giovedì 16 maggio 2013
SEGUE POST PRECEDENTE. Leggi il testo della sentenza.
Con la sentenza impugnata, la Corte d'Appello di Catania, confermava la pronuncia di primo grado (intervenuta il 14/6/2005), con la quale era stata pronunciata la separazione personale tra S.M. e F.M. con addebito a carico della S. ed era stato disposto l'affidamento dei figli minori A. e K. al padre, unitamente all'assegnazione della casa coniugale ed, infine, imposto l'obbligo per la madre di versare a titolo di contributo nel mantenimento dei minori la somma di Euro 250 mensili.
A sostegno della decisione di secondo grado per quel che ancora interessa, sull'appello proposto dalla S., veniva affermato:
a) sull'addebito, che la pronuncia era fondata sull'allontanamento dalla casa coniugale realizzato dalla S. unitamente ai figli minori, protrattosi per alcuni mesi senza dare notizie al coniuge e facendo perdere le tracce di sé, tanto che l'attuazione del provvedimento di affidamento disposto nel corso del giudizio di primo grado dal giudice istruttore, all'esito di consulenza tecnica d'ufficio (28/10/2003), poteva essere attuato soltanto molti mesi dopo (6/5/2004). In particolare, la Corte d'Appello aveva evidenziato che la S. aveva ammesso di non aver comunicato al marito l'intenzione di allontanarsi definitivamente e di avere approfittato delle vacanze estive per lasciare la propria casa con i figli senza dare notizie se non dopo alcuni mesi. Veniva inoltre precisato che era stato depositato dalla stessa ricorso per separazione in data (omissis) , notificato però soltanto il (omissis). Si aggiungeva, infine, che non risultava provata una giusta causa del predetto allontanamento unilaterale, attuato senza il consenso ed all'insaputa del coniuge;
b) sull'affidamento, che la consulenza tecnica d'ufficio integrativa di quella già espletata in primo grado aveva univocamente concluso per la conferma della custodia paterna, fermo l'affidamento condiviso ad entrambi, con ampia ed esauriente motivazione cui la Corte si riportava;
c) sulle istanze istruttorie proposte dalla S., (relative alla convivenza del M. more uxorio con un'altra donna nella casa coniugale unitamente ai minori, nonché alla circostanza di aver preventivamente informato il marito il ... di non volere tornare a casa, con indicazione del luogo ove si trovavano i bambini) formulate in secondo grado ed, infine, sulla richiesta di ascolto della minore A. , che esse erano inammissibili per tardività ex art. 345 cod. proc. civ..
Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso, affidato ad undici motivi la S.
Ha resistito con controricorso il M.
Nel primo e secondo motivo di ricorso è stata censurata sia sotto il profilo della violazione della norma processuale che sotto il profilo del vizio di motivazione la mancata ammissione dell'interrogatorio formale del M. e delle prove testimoniali, in quanto ritenuti nella sentenza impugnata tardivamente proposti. Al riguardo la parte ricorrente ha osservato che si trattava di circostanze sopraggiunte nel giugno 2004 dopo che erano maturate le decadenze del primo grado di giudizio, con conseguente unica possibilità di dedurle con l'atto di appello.
Per la parte relativa alla violazione di legge il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto:
"In applicazione dell'art. 345, comma terzo, cod. proc. civ., sono ammissibili in appello la prova testimoniale e L'interrogatorio formale edotti su capi relativi a circostanze indicate come verificatesi nel corso del giudizio di primo grado e dopo che siano spirati i termini per poter richiedere l'ammissione di questi stessi mezzi istruttori?”.
Nel terzo motivo viene censurata sotto il profilo della violazione di legge l'omessa audizione della minore A..M. , la quale alla data dell'ultima udienza tenutasi davanti alla Corte d'Appello aveva compiuto 14 anni. Al riguardo ha osservato la parte ricorrente che l'art. 155 sexies cod. civ. ai sensi del quale il giudice è tenuto a disporre l'audizione del minore che abbia compiuto gli anni 12 avrebbe imposto l'accoglimento di tale istanza.
Il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto:
"Vero che, nel caso in cui sia chiamato ad assumere i provvedimenti previsti dall'art. 155 cod. civ., il giudice d'appello sia tenuto a pena di nullità della sentenza, all'audizione del minore, che abbia compiuto gli anni 12, cosi come previsto dall'art. 155 sexies cod. civ., in ogni caso e soprattutto se a tanto non si è provveduto nel giudizio di primo grado?".
Nel quarto motivo viene denunciata la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. per essere la sentenza impugnata, nell'esame della domanda di addebito, incorsa nel vizio di ultra petizione nella parte in cui, ignorando la circostanza accertata dal Tribunale di Catania e non formante oggetto di censura in appello, relativa alla preesistenza di una condizione di separazione di fatto tra i coniugi M. - S., ha ritenuto non fornita dalla S. la prova che il rapporto era già compromesso da tempo.
Il motivo si chiude con il seguente quesito di diritto:
"Vero che l'applicazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato previsto dall'art. 112 cod. proc. civ., si applica nel giudizio d'appello, nel senso che è fatto diverto al giudice di porre a fondamento della decisione un fatto, dedotto come vero nella sentenza di primo grado, confermato dall'appellante e confermato implicitamente dall'appellato che chieda la conferma in ogni sua parte della sentenza impugnata?".
Nel quinto e sesto motivo la statuizione sull'addebito viene censurata sotto il profilo del vizio di motivazione per aver trascurato la dedotta e non contestata crisi coniugale in atto e la conseguente condizione di separazione di fatto tra le parti protrattasi per diversi anni, senza dare rilevo al fatto che l'allontanamento dalla casa coniugale era stato determinato da questa consolidata situazione e dopo aver depositato il ricorso per separazione;
Nel settimo motivo la statuizione sull'addebito viene censurata sotto il profilo della violazione di legge, in quanto assunta in contrasto con i criteri stabiliti nell'art. 146 cod. civ..
Al riguardo, la ricorrente ha osservato che l'allontanamento dalla casa coniugale era intervenuto solo dopo il deposito del ricorso per separazione e che i comportamenti ad essa attribuiti successivamente, quali il ritardo nell'esecuzione del provvedimento di affidamento dei figli minori al padre e la comunicazione successiva all'allontanamento della volontà separativa non potevano costituire violazioni dei doveri familiari integranti l'accoglimento della domanda di addebito, proprio perché successivi al deposito di essa.
Il motivo si chiude con i seguenti quesiti di diritto:
"Vero che, una volta depositata la domanda per la separazione, il successivo allontanamento dalla residenza coniugale, anche se non accompagnato da ulteriori gravi motivi, non costituisce violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio, ai fini della determinazione dell'addebito, previsto dall'art. 151, comma secondo, cod. civ.".
"Vero che il coniuge, che ha già depositato domanda di separazione, non realizza violazione dei doveri del matrimonio che giustificano l'addebito della separazione se comunica intempestivamente il proprio nuovo indirizzo?".
"Vero che non realizza violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio chi, depositando domanda di separazione, allontanandosi dalla casa coniugale in compagnia dei figli minori, constatato il disaccordo con il coniuge sull'individuazione della residenza familiare, attende la decisione del Tribunale sulle istanze poste in ordine alla casa coniugale ed all'affidamento dei figli, tenendo con sé gli stessi?".
Nell'ottavo motivo viene censurata, sotto il profilo del vizio di motivazione, la statuizione relativa all’affidamento dei minori al padre. Al riguardo, la parte ricorrente lamenta che la decisione assunta dalla Corte d'Appello si fonda sull'errata premessa logica della sostanziale coincidenza di valutazione tra il consulente d'ufficio e quella di parte, invece del tutto diverse, e ritiene erroneamente che i minori abbiano raggiunto un adeguato equilibrio fisio psicologico non riscontrabile neanche alla luce della consulenza tecnica d'ufficio.
Nel nono motivo viene censurata sotto il profilo del vizio di motivazione l'omessa valutazione della domanda di assegnazione della casa coniugale (nell'ipotesi di conferma delle statuizioni relative all'affidamento dei figli minori) nei giorni di visita dei minori in Sicilia.
Nel decimo ed undicesimo motivo viene censurata sia sotto il profilo della violazione di legge che del vizio di motivazione la statuizione relativa all'obbligo di versamento di un contributo per il mantenimento dei minori quantificato in Euro 250 mensili, stabilito senza tenere conto della incidenza della sproporzione tra i redditi dei due coniugi e l'utilizzo esclusivo da parte del marito della casa coniugale. Il motivo contenente la censura di violazione di legge si chiude con il seguente quesito:
"Vero che nell'individuazione del soggetto obbligato al pagamento dell'assegno di mantenimento a favore dei figli e nella determinazione del detto assegno, il giudice applica il principio di partecipazione di ciascuno dei coniugi, proporzionale al loro reddito, considerando le risorse economiche di entrambi i coniugi e tiene conto dell'assegnazione della casa coniugale, considerato il titolo di proprietà vantato da ciascuno dei coniugi relativamente all'appartamento che costituisce la casa coniugale?".
Devono essere in primo luogo affrontate le eccezioni d'inammissibilità del ricorso formulate nel controricorso.
In primo luogo viene rilevato che l'atto di ricorso fotoriprodotto in copia e trasmesso a mezzo fax non reca in calce né in altro punto la sottoscrizione autografa né di colui che dovrebbe essere il difensore trasmittente né del ricevente, risultando tale atto redatto su carta intestata ad altro studio legale. L'art. 1, primo comma, lettera b) della L. n. 183 del 1993 impone che l'atto trasmesso rechi la sottoscrizione leggibile dell'avvocato estensore e trasmittente e che tali elementi risultino dalla copia foto riprodotta.
In secondo luogo il difetto di sottoscrizione dell'atto da parte del difensore, costituisce un requisito richiesto espressamente dall'art. 365 cod. proc. civ., che deve sussistere sia nell'atto depositato che nella copia notificata, non essendo sufficiente la firma meccanografica. La mancanza della sottoscrizione rende assolutamente incerta la paternità dell'atto ed il ricorso conseguentemente inammissibile.
In terzo luogo, la procura risulta rilasciata su foglio separato spillato al ricorso privo di numerazione in ordine successivo con conseguente violazione dell'art. 365 cod. proc. civ., non essendo possibile riferire la procura all'atto di ricorso né ritenerla valida non recando la forma della scrittura privata o dell'atto pubblico notarile.
In ordine alla prima eccezione deve rilevarsi che il ricorso teletrasmesso via fax reca la sottoscrizione del trasmittente nell'ultima pagina, nonché quella avente il fine di certificare l'autenticità della sottoscrizione della parte conferente la procura speciale alle liti per il procedimento di cassazione. Tale sottoscrizione risulta del tutto leggibile. Peraltro secondo l'orientamento più recente di questa Corte “Con riferimento alla disciplina relativa all'utilizzazione dei mezzi di telecomunicazione tra avvocati in ordine alla trasmissione di atti processuali, la leggibilità della sottoscrizione del mittente è prescritta dall'art. 1 della legge 7 giugno 1993, n. 183, non ai fini dell'esistenza o della validità dell'atto, ma della possibilità di considerare la copia ricevuta come conforme alL'originale inviato con mezzo telematico, con la conseguenza che la mancanza di tale requisito ha rilievo solo nel caso in cui detta conformità venga posta in discussione. (Cass. 5883 del 2009) Inoltre, l'atto reca tutti i requisiti di validità richiesti dall'art. 1 della L. n. 183 del 1993 secondo quanto affermato dal costante orientamento di questa Corte: Per effetto dell'art. 1, primo comma, della legge 7 giugno 1993 n.183 - che disciplina l'utilizzazione dei mezzi di telecomunicazione tra avvocati della stessa parte per la trasmissione degli atti relativi a provvedimenti giurisdizionali - nella presunzione, iuris et de iure, stabilita dall'art. 2719 cod. civ., prima parte, di conformità all'originale della fotocopia di un atto, se attestata da pubblico ufficiale, rientrano gli atti del processo trasmessi a distanza da un avvocato all'altro, se: a) L'avvocato trasmittente attesti la conformità della copia all'originale; b) sia l'avvocato trasmittente sia quello ricevente siano, congiuntamente o disgiuntamente, difensori della parte; C) l'avvocato trasmittente abbia sottoscritto in modo leggibile l'atto trasmesso e L'avvocato la fotocopia ricevuta e, se con lo stesso è conferita la procura alle liti, anche la sottoscrizione della parte sia leggibile. (Cass.9323 del 2004). Com'è agevole riscontrare dall'esame dell'atto, in calce ad esso vi è la dichiarazione di conformità sottoscritta dall'avvocato trasmittente e da quello ricevente entrambi difensori della parte ed infine la procura reca la firma del tutto leggibile della parte conferente seguita dalla sottoscrizione del difensore trasmittente. Nessuna censura ex art. 2719 cod. civ. è stata mossa all'atto teletrasmesso. Ciò, in conclusione, determina il rigetto della prima eccezione d'inammissibilità. Ugualmente da respingere è la seconda eccezione relativa all'insufficienza della sottoscrizione "meccanografica" nella copia notificata. Al riguardo, poiché, come già osservato, nessun rilievo di difformità all'originale è stato formulato dalla parte controricorrente, nessun difetto d'idoneità può essere rivolto alla sottoscrizione dell'atto teletrasmesso, non essendo, peraltro, necessario, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte che la sottoscrizione dell'atto da parte del difensore e l'autenticazione della sottoscrizione della parte da parte del legale risultino anche dalla copia notificata. (Cass. 16215 del 2006; 636 del 2007; 5932 del 2010). Infine, la procura speciale in calce al ricorso non può ritenersi apposta su foglio separato al ricorso, attese le modalità di trasmissione dell'atto ma come componente dell'unico atto teletrasmesso. Peraltro, costituisce orientamento del tutto fermo di questa Corte quello secondo il quale anche la procura alle liti rilasciata su atto separato, ma materialmente legato al ricorso, ancorché priva di data, abbia piena validità, potendosi il requisito dell'anteriorità, desumersi dalla copia notificata del ricorso stesso. (Cass. 29785 del 2008).
Passando all'esame del ricorso principale, i primi due motivi sono manifestamente infondati. La sentenza impugnata rispetto alle istanze istruttorie formulate dalla ricorrente, non si è limitata a censurarne l'intempestività ma le ha ritenute non necessarie sulla base del consolidato principio secondo il quale l'assegnazione della casa coniugale non può che essere disposta in favore del genitore affidatario dei figli minori. Da tale premessa consegue la corretta valutazione d'irrilevanza delle prove per testi e per interrogatorio formale articolate dalla parte ricorrente anche alla luce della sentenza della Corte Cost. n. 308 del 2008 che ha fornito un'interpretazione costituzionalmente obbligata dell'art. 155 quater cod. civ. (introdotto dall'art. 1, comma secondo della l. n. 54 del 2006) nella parte in cui stabilisce che il diritto al godimento della casa familiare cessa nel caso che l'assegnatario conviva more uxorio nella casa familiare. Secondo questa pronuncia, l'assegnazione della casa coniugale non viene meno di diritto al verificarsi degli eventi indicati dalla norma (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), rimanendo comunque subordinata ad un giudizio di conformità all'interesse del minore. Ne consegue l'inscindibilità dei provvedimenti di affidamento e assegnazione della casa coniugale e l'obbligata adozione come esclusivo criterio risolutore del conflitto dell'interesse del minore. Nella specie non risulta che la circostanza della convivenza more uxorio sia stata posta in correlazione con la lesione dell'interesse dei figli minori conviventi, mentre la decisione relativa all'affidamento è risultata centrata su un'ampia indagine tecnica relativa proprio alla valutazione di tale interesse.
Il terzo motivo deve ritenersi inammissibile per difetto sopravvenuto d'interesse essendo la figlia A. divenuta maggiorenne nelle more del giudizio e non risultando la richiesta di audizione formulata anche nei confronti dell'altro figlio ancora minore di età. Il principio trova puntuale riscontro negli orientamenti di questa Corte: "Quando, nelle more del giudizio di legittimità avente ad oggetto l'affidamento di figlio minore ad uno degli ex coniugi a seguito di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sopravvenga la maggiore età del figlio, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse del ricorrente all'impugnazione”. (Cass. 5383 del 2006).
Il quarto, quinto e sesto motivo sono manifestamente infondati. La situazione, preesistente all'allontanamento dalla casa coniugale, unilateralmente deciso dalla ricorrente, di "separazione di fatto" non risulta affatto accertata con valore di giudicato nel primo grado di giudizio, non essendo stata mai in discussione la coabitazione tra i coniugi prima del dedotto allontanamento volontario della ricorrente. La dichiarazione di addebito, in entrambi i gradi di giudizio si è fondata sulla gravità di quest'ultimo comportamento, in quanto non solo realizzato all'insaputa del coniuge ma anche sottraendo all'altro genitore ogni contatto per un protratto periodo di tempo con i figli minori. A tale riguardo, la sentenza impugnata ha esaurientemente ed adeguatamente motivato in ordine alla mancanza della prova di cause giustificative pregresse di questo censurabile comportamento successivo. Al riguardo, si deve rilevare che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l'allontanamento, nella specie con i figli minori, al fine di escludere l'addebito, deve essere fondato su una giusta causa, il cui onere probatorio grava su chi realizza questa grave violazione dei doveri coniugali. Deve, infatti, osservarsi che "il volontario abbandono del domicilio coniugale è causa di per sé sufficiente di addebito della separazione, in quanto porta all'impossibilità della convivenza, salvo che si provi - e l'onere incombe a chi ha posto in essere l'abbandono - che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge, ovvero quando il suddetto abbandono sia intervenuto nel momento in cui l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza si sia già verificata, ed in conseguenza di tale fatto. (Cass. 17056 del 2007; 12373 del 2005). Peraltro nell'ipotesi in cui l'allontanamento riguarda anche i figli minori la prova deve essere molto più rigorosa e la situazione d'intollerabilità, anche ad essi riferita, deve essere specificamente ed adeguatamente rappresentata e dimostrata.
Il settimo motivo è manifestamente infondato. Il mero deposito del ricorso separativo non è idoneo a giustificare l'allontanamento unilaterale e non temporaneo dalla casa coniugale unitamente ai figli minori, dal momento che il cambiamento della residenza familiare legittimo solo quando sia frutto di una scelta condivisa, dovendo diversamente essere ritenuto una grave violazione dei doveri coniugali e familiari. Al riguardo, deve osservarsi che l'allontanamento dei minori dall'altro genitore si è protratto per un non modesto periodo di tempo ed è stato realizzato anche in violazione dei provvedimenti assunti nel corso del procedimento separativo. Tale complessiva condotta, caratterizzata dall'ingiustificata imposizione unilaterale di una condizione di lontananza dell'altro genitore dai figli minori, iniziata prima della notifica del ricorso separativo e protrattasi anche dopo tale adempimento processuale è ampiamente valutabile ai fini dell'addebito, anche dopo l'effettiva instaurazione del contraddittorio in quanto, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, anche il comportamento tenuto dal coniuge successivamente al venir meno della convivenza, ma in tempi immediatamente prossimi a detta cessazione può rilevare ai fini della dichiarazione di addebito della separazione allorché costituisca una conferma del passato e concorra ad illuminare sulla condotta pregressa.(Cass. 17710 del 2005).
L'ottavo motivo è manifestamente infondato dal momento che la decisione sull'affidamento dei minori, adeguatamente motivata dalla Corte d'Appello si fonda su una motivata adesione alle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio e non, come indica la parte ricorrente, esclusivamente o prevalentemente sulla dedotta adesione della consulenza di parte con la consulenza d'ufficio.
Il nono motivo è manifestamente infondato perché l'assegnazione della casa coniugale è ancorata alla custodia dei figli minori in affido condiviso o all'affidamento esclusivo, ad uno di essi ma non all'esercizio del diritto di visita, come viene adombrato nell'illustrazione del motivo.
Il decimo ed undicesimo motivo sono anch'essi manifestamente infondati, dal momento che l'obbligo di contribuire secondo i propri redditi è posto a carico di entrambi i genitori e da tale obbligo non ci si può sottrarre soltanto perché titolari di una capacità di reddito inferiore a quella dell'altro genitore. Peraltro, occorre sottolineare che la modesta entità del contributo è stata determinata dal giudice del merito, con motivazione adeguata ed esauriente, proprio in virtù dell'adozione del criterio della comparazione e della proporzionalità tra i redditi dei due genitori.
In conclusione il ricorso deve essere respinto.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente a pagare in favore della parte resistente le spese del presente procedimento liquidate in Euro 3000 per compensi ed Euro 200 per esborsi oltre accessori di legge.
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