giovedì 31 gennaio 2013
RICONOSCIMENTO DEI FIGLI NATURALI FUORI DEL MATRIMONIO: la circolare n. n.33/2012 del Ministero dell'Interno
Con la circolare n. 33/2012 il Ministero dell’Interno ha precisato che “Con Legge 10 dicembre 2012, n. 219, pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 293 del 17 dicembre 2012, in vigore dal 10 gennaio 2013, il legislatore ha introdotto modifiche alle disposizioni del Codice civile in materia di riconoscimento di figli naturali (artt. 1 e 3); ha delegato il Governo alla revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione (art. 2); ha modificato la disposizione regolamentare, di cui all'art. 35, D.P.R. 3 novembre 2000 n. 396, relativa alla disciplina del nome (art. 5, comma 2); ha previsto che entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della normativa delegata, siano apportate le necessarie e conseguenti modifiche alla disciplina regolamentare in materia di ordinamento dello stato civile, di cui al D.P.R. n. 396/2000 cit. (art. 5, comma 1).
La ratio della riforma in esame si rinviene nella volontà del Legislatore di addivenire al superamento, nell'ordina~ento nazionale, di ogni ineguaglianza normativa tra figli legittimi e figli naturali, in virtù del principio della unicità dello status di. "figlio", con conseguenti, significativi riflessi giuridici nella materia dello stato civile.
In attesa della rimodulazione complessiva del quadro normativo che, in ossequio a tale principio, deriverà sia dalla normativa delegata (art. 2 cit.), sia dalle previste modifiche delle disposizioni regolamentari (art. 5, comma 1, cit.), si evidenziano fin da ora gli aspetti di immediato interesse, attinenti alla materia dello stato civile”.
venerdì 25 gennaio 2013
La detenzione di animali dopo la riforma del condomio
La presenza di animali negli appartamenti non può essere impedita e vietata dalle clausole del regolamento condominiale.
La recente legge di riforma del condominio ha introdotto all’articolo 1138 cod. civ. il comma “le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici” (art. 16 della legge 11.12.2012 n.220).
La norma recepisce i principi che la giurisprudenza, chiamata nella prassi a pronunciarsi sulla legittimità delle clausole del regolamento condominiale che impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà, ha elaborato nel tempo proprio con riferimento alla disposizione contenente il divieto di detenzione di animali negli spazi privati, distinguendo l’ipotesi in cui la clausola è contenuta nel regolamento assembleare da quella contenuta nel regolamento contrattuale.
Secondo l’elaborazione giurisprudenziale, difatti, gli ordinari regolamenti condominiali, che a mente dell'art. 1138 comma 4, cod. civ. risultano approvati dall'assemblea dei condomini con il voto non della totalità ma solo, dalla maggioranza dei condomini, non possono contenere clausole implicanti menomazioni delle facoltà comprese nel diritto di proprietà dei condomini sulle porzioni del fabbricato comune ad essi individualmente appartenenti in esclusiva. Fra le clausole in questione devono ritenersi incluse quelli recanti il divieto di tenere negli appartamenti i comuni animali domestici, posto che tali disposizioni, nella realtà, incidono, limitandola, sulla facoltà di godimento degli appartamenti compresa nel contenuto del diritto di proprietà. Tale clausola, tra l’altro, non può produrre effetti neppure con riguardo a quei condomini che concorsero con il loro voto favorevole alla relativa approvazione (Cass. civ., Sez. II, 4 dicembre 1993, n. 12028).
Dal principio di libertà del singolo condomino di poter godere e disporre come meglio crede della propria proprietà esclusiva deriva che la detenzione degli animali domestici rientra nelle facoltà di godimento del proprietario dell’immobile. Ne consegue che un divieto non può essere contenuto negli ordinari regolamenti condominiali approvati dalla maggioranza dei partecipanti ma solo in un regolamento contrattuale, dal momento che solo con il consenso unanime è possibile limitare le facoltà comprese nel diritto di proprietà.
Il regolamento condominiale non contrattuale in sostanza non è suscettibile di vincolare la generalità dei comunisti con riferimento a clausole eccedenti i limiti del rispetto dei diritti individuali di ciascun condomino.
Le clausole del regolamento condominale che impongono limitazioni ai poteri e alle facoltà spettanti ai condomini sulle parti di loro esclusiva proprietà incidono sui diritti dei condomini, quindi tali disposizioni hanno natura contrattuale, in quanto vanno approvate e possono essere modificate con il consenso unanime dei comproprietari, dovendo necessariamente rinvenirsi nella volontà dei singoli la fonte giustificatrice di atti dispositivi incidenti nella loro sfera giuridica (in tal senso Cass. civ. 15 febbraio 2011, n.3705). Tali disposizioni esorbitano dalle attribuzioni dell’assemblea, alla quale è conferito il potere regolamentare di gestione della cosa comune, provvedendo a disciplinarne l’uso e il godimento.
Il Legislatore con l’introduzione del nuovo comma al novellato articolo 1138 del codice civile ha sancito l’impossibilità di apporre limitazioni, nei regolamenti condominiali, alla possibilità di ospitare animali domestici all’interno degli appartamenti. Questa libertà del singolo ovviamente non esclude che la detenzione di un animale possa integrare in astratto la fattispecie dell’articolo 844 del codice civile di immissione molesta e intollerabile che rechi pregiudizio ai condomini sotto forma di disturbo alla quiete.
Il proprietario dell’animale è responsabile, ai sensi dell’articolo 2052 cod. civ., dei danni cagionati dallo stesso e la sua custodia senza le debite cautele può assumere gli estremi di un comportamento censurabile anche sotto il profilo penale ai sensi dell’articolo 672 c.p.
giovedì 24 gennaio 2013
CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO CON POSTE ITALIANE STIPULATO AI SENSI DELL’ART. 2, comma1 bis, del D.Lgs. 368/2001: INEFFICACIA E/O NULLITA’ DEL TERMINE E RICHIESTA DI CONVERSIONE IN CONTRATTO A TEMPO INDETERMINATO.
La questione in commento rappresenta un’intricata e spinosa vicenda che riguarda la tutela dei diritti sociali di numerosi lavoratori precari alle dipendenze di Poste Italiane.
In particolare, con questo approfondimento lo scrivente vuole sottolineare quelli che sono i diversi profili di illegittimità che riguardano i contratti a tempo determinato, nella specie trattasi di casi di primo ed unico contratto, conclusi da Poste Italiane facendo esclusivo riferimento all’art. 2 comma 1 bis del D.Lgs. 368/2001, senza indicazione di alcuna ragione oggettiva come imposto dall’art. 1 dello stesso decreto legislativo.
Nel caso di specie, data la stessa formulazione della motivazione del contratto individuale, consistente nel mero richiamo all’art. 2 comma 1 bis del D.Lgs. 368/2001, è totalmente impossibile verificare la sussistenza in concreto delle condizioni di fatto e diritto legittimanti l’apposizione del termine. Si tratta, infatti, di un richiamo così generale e generico, che non è possibile alcun idoneo riferimento alle esigenze specifiche che hanno portato all’assunzione a termine. Non vi è quindi modo né possibilità alcuna di apprezzare se vi sia e quale sia la relazione tra il contratto a termine e una oggettiva situazione aziendale idonea a giustificarlo!
Eppure, bisogna constatare che la società Poste Italiane fa larghissimo ricorso a questo tipo di contratto che, è bene dirlo, è previsto espressamente dalla legislazione italiana che ha introdotto tale norma con l’art. 1, comma 558, della legge finanziaria n. 266/2005, il quale ha aggiunto un comma bis all’unico comma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 368/2001 e, pertanto, con decorrenza dal 1° gennaio 2006, un’ipotesi di nuova causale di apposizione del termine esclusivamente per i dipendenti di Poste Italiane S.p.A.
Senza ombra di dubbio trattasi di una norma di esclusivo favore per la società Poste Italiane S.p.A..
La norma, infatti, non è destinata alle imprese operanti in un determinato settore economico o produttivo e, quindi, ad una pluralità di soggetti, ma ad un unico operatore economico quale Poste Italiane; l’operatività di tale norma, poi, è individuata esclusivamente in base al criterio soggettivo del destinatario della norma garantendogli, in relazione all’attività svolta nel suo complesso, la stipula di contratti a termine ivi prevista.
E’ indubbio che la norma suddetta peggiora fortemente la situazione di tutela dei lavoratori a termine di Poste Italiane S.p.A. rispetto alla normativa ante 1° gennaio 2006.
Nonostante tali considerazioni la Corte Costituzionale, con sentenza n. 214 del 2009 (interpretativa di rigetto, pertanto non vincolante per il giudice di merito) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 368/2001, sollevata dal Tribunale di Roma in riferimento agli artt. 3, primo comma, 101, 102 e 104 della Costituzione, in quanto “la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità dell'organico, è direttamente funzionale all'onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, lo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la realizzazione e l'esercizio della rete postale pubblica i quali «costituiscono attività di preminente interesse generale». In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla direttiva 1997/67/CE, l'Italia deve assicurare lo svolgimento del c.d. “servizio universale” …omissis…Non è, dunque, manifestamente irragionevole che ad imprese tenute per legge all'adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato”.
Pertanto, il “salvataggio” della norma viene giustificato dalla Corte Costituzionale unicamente per la posizione rivestita da Poste Italiane in merito al Servizio Universale che, però, non trova più ragione d’essere alla luce della totale liberalizzazione del mercato dei servizi postali e del progressivo venir meno di tale tipo di servizio.
Tale sentenza, inoltre, è già stata esposta a notevoli critiche da parte dei più autorevoli commentatori della materia.
Inoltre, alla luce dell’innovato quadro normativo, scaturente dalla Direttiva 2008/6/CE, che modifica la Direttiva 1997/67/CE dal 1° gennaio 2011, l’Italia non può concedere o mantenere in vigore diritti esclusivi o speciali per l’instaurazione e la fornitura di servizi postali e, pertanto, dovendo essere fornito anche il cd. Servizio Universale in regime di concorrenza, viene meno la ragione giustificatrice della disciplina di favore valevole esclusivamente in favore di Poste Italiane S.p.A., che finisce per essere chiaramente in contrasto con il diritto comunitario.
Ad ogni buon conto, approfondendo il tema, emerge una situazione in cui è evidente che trattasi di un intervento del legislatore interno che è stato finalizzato esclusivamente ad avvantaggiare Poste Italiane la quale, allo stato, è una società che opera nel mercato italiano in un contesto di posizione dominante come titolare del Servizio Universale nazionale per la raccolta e distribuzione della corrispondenza.
Sulla scorta di questo ragionamento, è evidente che le assunzioni a termine ai sensi dell’art. 2, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 368/2001, senza indicazione di alcuna causale giustificatrice, operate successivamente al 1° gennaio 2011, devono considerarsi sicuramente illegittime, per incompatibilità con la normativa comunitaria e, di conseguenza, la norma interna dovrà essere disapplicata o non applicata in forza del principio di supremazia ed efficacia diretta dell’ordinamento comunitario.
Oltre a ciò, comunque, diversi sono i motivi per cui tale tipo di contratto è da ritenersi illegittimo e, pertanto, a seguito di ricorso al Tribunale del Lavoro, il Giudice del Lavoro adito dovrebbe dichiarare la conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato con ogni ulteriore conseguenza prevista.
Si riportano di seguito, schematicamente, i principali motivi per cui il contratto a tempo determinato ex art. 2 comma 1 bis del D.Lgs. 368/2001 è da ritenersi illegittimo, e che lo scrivente difensore utilizza nei propri ricorsi nelle vertenze contro Poste Italiane al fine di far dichiarare la nullità del termine e la declaratoria di conversione del rapporto di lavoro:
1)Illegittimità dell’apposizione del termine per contrarieta’ dell’art. 2, comma 1 bis, D.Lgs. 368/2001 al diritto comunitario e per mancata indicazione e specificazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo
2) L’art. 2, comma 1 bis, del D.Lgs. n. 368/2001, le imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste e l’abuso di posizione dominante di Poste Italiane S.p.A.
3) Illegittimità del contratto a termine per violazione della “clausola di contingentamento” prevista dall’art. 2, comma 1 bis, D.Lgs. 368/2001.
4) Illegittimità del contratto a termine per mancata, incompleta o inadeguata valutazione di tutti i rischi relativi alla sicurezza del luogo di lavoro
5) Risarcimento pari alla retribuzione globale di fatto dall’impugnativa fino all’effettivo ripristino del rapporto di lavoro, oltre indennità ex art. 32 L. 183/2010.
lunedì 21 gennaio 2013
Da oggi il tuo cane può venire a trovarti in ospedale anche se il regolamento lo vieta! Sentenza storica a Varese
(Siamo lieti di pubblicare il contributo di CINZIA V. inviato a “La Legge per Tutti”. Riportiamo di seguito il testo integrale dell’articolo del nostro lettore)
Gli animali domestici presenti nelle case degli italiani sono circa 40 milioni. L’87% degli italiani possiede un cane, o un gatto, tartarughe, pappagallini, conigli, criceti, pesci rossi e così via.
Per la maggior parte delle persone il proprio animale d’affezione è considerato a tutti gli effetti un vero e proprio membro della famiglia, parte integrante di essa. Sempre più spesso infatti vengono attribuiti loro veri e propri nomi propri di persona, quasi a suggellare questo rapporto “familiare”.
È ormai noto il valore e le grandi capacità terapeutiche di tenere con sé un animale. La pet therapy tra l’altro fa sì che vengano adoperati proprio gli animali per aiutare bambini o adulti con patologie tra le più disparate.
I risultati di miglioramento dei pazienti sottoposti a pet therapy sono pressoché immediati e tangibili. È stato scientificamente provato che il rapporto che si instaura infatti tra l’animale e il paziente apporta notevoli benefici tanto fisici quanto psicologici.
Una signora di Varese, ricoverata in una struttura ospedaliera, ha visto negarsi dal regolamento interno dell’ospedale la possibilità di ricevere, insieme ai suoi cari, anche la visita del suo amatissimo cagnolino. Così ha portato la questione in tribunale e, alla fine, il giudice di Varese, Giuseppe Buffone, con una sentenza storica (decreto del 7.12.11), ha stabilito che la signora, obbligata a lunghi ricoveri che la tengono lontana dai suoi affetti, può da oggi ricevere anche la visita del suo cane.
La parte più determinante della sentenza infatti recita che: “il sentimento per gli animali costituisce un valore e un interesse a copertura costituzionale (…). In merito a questo la Convenzione europea di Strasburgo ha stabilito che: la legge ha riconosciuto che l’uomo ha l’obbligo morale di rispettare tutte le creature viventi, e in considerazione dei particolari vincoli esistenti tra l’uomo e gli animali da compagnia, ha affermato l’importanza di tali animali a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società”.
È grazie a questa sentenza così ben articolata che la Signora di Varese può ricevere in ospedale la visita del suo cane.
Ingiuria: l’offesa reciproca elimina il reato
Le offese reciproche che infangano l’altrui reputazione eliminano il reato di ingiuria.
Durante una partita a carte, due persone avevano urlato, l’una contro l’altra, espressioni particolarmente offensive.
“Sei piena di debiti” dice lui.
“In città tutti ti conoscono” risponde lei…
Due frasi che, secondo la Cassazione [1], avevano una valenza sarcastica, volta a gettare discredito nei riguardi dell’interlocutore.
Tuttavia, secondo la Suprema Corte, non si può procedere alla punizione delle due condotte perché frutto di una reciproca provocazione.
Insomma: chi se la cerca non può andare a piangere, poi, dal giudice.
[1] Cass. sent. n. 37651 del 28.09.2012.
mercoledì 16 gennaio 2013
L'omissione di soccorso anche nei confronti degli animali è penalmente rilevante
Cass. penale, sez.III, sentenza n. 29543 del 22 luglio 2011.
L'investimento di un gatto non costituisce l'ipotesi criminosa di uccisione di animale di cui all'art. 544 bis c.p., può tuttavia avere rilevanza penale la successiva condotta di omissione di soccorso, nonché, nella fattispecie, la condotta omissiva costituita dall'impedire ad altri di soccorrerlo.
Nella fattispecie una donna, dopo aver ferito gravemente un gatto durante la fase di manovra con la sua auto, non solo non si fermava a prestare soccorso all'animale, ma impediva l'accesso al proprio cortile ad altri che potevano prestare soccorso al felino, il quale dopo due giorni di agonia decedeva.
Il Pubblico Ministero aveva chiesto l'emissione di un decreto penale di condanna ai sensi dell'art. 544-ter c.p. per aver cagionato una lesione dalla quale era derivata la morte dell'animale (maltrattamento).
Il G.I.P. del Tribunale di Busto Arsizio aveva dichiarato non doversi procedere perché il fatto non sussiste, rilevando che le lesioni non erano conseguenza di un atto volontario e che il successivo comportamento omissivo, costituito dal rifiuto di cure all'animale, non integra l'ipotesi di reato ascritta.
Il Procuratore Generale ricorre per Cassazione per violazione di legge.
In effetti la condotta omissiva addebitata all'imputata non può ricondursi al maltrattamento di cui all'art. 544 ter c.p., costituito da un comportamento commissivo.
La diversa ipotesi della uccisione di animali di cui all'art. 544 bis c.p. contempla sia le condotte commissive sia quelle omissive.
La Suprema Corte condivide l'impostazione della pubblica accusa, osservando come il fatto non sia riconducibile al reato di cui all'art. 544 ter c.p., che punisce la condotta di chi, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o fatiche o lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche.
Viceversa nel caso sottosposto all'esame sussistono gli estremi del reato di uccisione di animale previsto dall'art. 544 bis c.p.; il quale può essere conseguenza sia di una condotta commissiva che omissiva.
La Corte ritiene che nel caso in esame sussista l'evento previsto dalla fattispecie criminosa (art. 544-bis c.p.) così come l'elemento psicologico del reato;
rimette pertanto gli atti al P.M. perché valuti, in relazione alle circostanze di fatto emerse dalle indagini, se sussiste un nesso di causalità tra la condotta e l'evento e se tale condotta, costituita dall'avere impedito ad altre persone di soccorrere l'animale, può concretamente qualificarsi come commissiva ovvero omissiva e giuridicamente rilevante.
In caso di separazione, a chi viene affidato l’animale domestico
Se la coppia scoppia, l’animale domestico va considerato come un figlio e, quindi, assegnato con affidamento condiviso.
Tra le cinque ragioni più frequenti di separazione ci sono gli animali domestici. Alla base dei dissapori coniugali, infatti, sempre più spesso vi sarebbe l’eccessivo affetto di uno dei coniugi nei confronti di Fido o di Fuffi. Un affetto così intenso da relegare il partner a un ruolo di comprimario nel mènage familiare e innescare sentimenti di gelosia e insoddisfazione.
Emblematico il caso di una coppia lombarda, che nel 2008 cestinò la separazione consensuale per contendersi il cane in sede giudiziaria. Il Tribunale di Cremona [1], in merito, decise di equiparare gli animali domestici alla prole, ordinando l’applicazione di tutte le garanzie previste per l’affido condiviso dei figli minori [2].
A confermare questo orientamento, ci ha pensato una recente ordinanza del Presidente del Tribunale di Foggia, la cui motivazione suona divertente. Ivi si legge che, in caso di separazione della coppia, il giudice può disporre “che l’animale d’affezione, già convivente con la coppia, sia affidato ad uno dei coniugi con l’obbligo di averne cura, e statuire a favore dell’altro coniuge il diritto di prenderlo e tenerlo con sé per alcune ore nel corso di ogni giorno”.
In passato, invece, vigeva un principio differente: il coniuge intestatario del microchip con cui il cane era stato registrato all’anagrafe canina regionale, ne era il proprietario.
Oggi, invece, i cosiddetti “animali d’affezione” vengono considerati non più come “beni”, ma come esseri viventi. In quanto tali, si tiene conto delle relazioni che hanno sviluppato all’interno della famiglia, cercando la soluzione meno traumatica per il loro equilibrio e sviluppo, indipendentemente da chi risulta intestatario del microchip. Esso, infatti, ha solo la funzione di risalire all’identità del padrone, intendendosi con “padrone”, in senso ampio, la famiglia che se n’è preso cura.
In Italia non esiste una normativa specifica in materia e si va ancora per orientamenti dei giudici che, attualmente, stanno estendendo agli animali domestici la disciplina sull’affido condiviso dei figli. Per colmare la lacuna, “l’Intergruppo Parlamentare Animali” ha presentato, nel 2008, una proposta di legge [3] per l’inserimento nel codice civile di alcune disposizioni [4] riguardanti la tutela degli animali. Tra esse, rivestono maggiore interesse gli artt. 455 bis e ter:
“1. Gli animali sono esseri senzienti”.
“2. Le disposizioni concernenti i diritti civili delle persone sono estese agli animali, laddove compatibili e non in contrasto con altre norme speciali e settoriali sugli animali”.
“3. Gli animali sono soggetti alle leggi speciali che li riguardano, oltre che alle disposizioni del presente codice, in quanto applicabili”.
E ancora:
“1. Per gli animali familiari, in caso di separazione di coniugi il Tribunale, in mancanza di un accordo tra le parti, a prescindere dal regime di separazione o comunione dei beni e a quanto risultante dai documenti anagrafici dell’animale, sentiti i coniugi, i conviventi, la prole, e se del caso degli esperti di comportamento animale, ne attribuisce l’affido esclusivo o condiviso alla parte in grado di garantire loro la sistemazione migliore inerente il profilo della protezione degli animali.
Il Tribunale ordinario è competente a decidere in merito anche in caso di cessazione della convivenza more uxorio”.
Tale disegno di legge consentirebbe all’Italia di dare attuazione alle disposizioni del Trattato UE [5], in cui si riconoscono gli animali come “esseri senzienti”, in grado di soffrire fisicamente e psichicamente, caratterizzati da un sistema nervoso e da un cervello sviluppati.
[1] Tribunale di Cremona, sent. dell’11.06.2008.
[2] Legge n. 56/06.
[3] Intitolata “Disposizioni per la tutela degli animali e Codice Civile”, presentata il 21.10.2008.
[4] Si tratta dell’istituzione di un intero Titolo, il XIV-bis.
[5] Nello specifico si parla dell’art. II/13 del Trattato UE, già recepito con legge 130/2008.
Gli ammortizzatori sociali dopo la riforma Fornero: i chiarimenti dell'Inps
INPS , circolare 07.01.2013 n° 2
L'Inps con la circolare 7 gennaio 2013, n. 2 fornisce istruzioni in merito all'operatività degli ammortizzatori sociali durante il periodo transitorio 1° gennaio 2013 - 31 dicembre 2016; si dettano chiarimenti circa la durata delle prestazioni, i possibili beneficiari, i requisiti e le ipotesi di decadenza.
La L. n. 92/2012 (c.d. Riforma Fornero), recante "Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita", ha istituito, con decorrenza dal 1° gennaio 2013, l'Assicurazione sociale per l'impiego (ASpI) e la mini-ASpI, che forniscono un'indennità di disoccupazione ai lavoratori che hanno perso involontariamente il lavoro.
A partire dal 1° gennaio 2017, dunque, saranno abrogati i seguenti trattamenti:
indennità di mobilità ordinaria;
trattamento speciale di disoccupazione per l'edilizia ex D.L. n. 299/1994, conv. L. n. 451/1994;
trattamento speciale di disoccupazione per l'edilizia ex L. n. 427/1975.
Per quanto riguarda, nello specifico, l'indennità di mobilità ordinaria, dal 1° gennaio 2013 al 31 dicembre 2016 è stata prevista una graduale riduzione della durata della prestazione, secondo uno schema delineato nella stessa circolare in oggetto.
(Altalex, 14 gennaio 2013)
Gli animali hanno un’anima purché abbiano un padrone: riconosciuto il danno per il maltrattamento di animali
La Cassazione [1] ha stabilito che, nell’ipotesi di maltrattamento di animali domestici, il molestatore deve risarcire, oltre al danno fisico cagionato all’animale, anche il danno morale arrecato al padrone.
Già diversi giudici di primo grado avevano stabilito questo principio nel caso di uccisione dell’animale.
Per esempio, il 30 luglio del 2006 una sentenza innovativa del Giudice di Pace di Ortona (Chieti) aveva condannato un automobilista, che aveva investito ed ucciso un cane nel febbraio del 2006, al risarcimento del danno esistenziale subìto dalla proprietaria.
In un’altra circostanza, la morte di un gatto dovuta alla negligenza della clinica aveva determinato il risarcimento del danno morale in favore del padrone.
L’uomo ha da sempre cercato di addomesticare gli animali, passando da una finalità di difesa del nucleo familiare alla costruzione di un rapporto simbiotico, affettivo e, da poco, anche terapeutico [2]. Oggi, gli animali domestici rappresentano per le famiglie veri e propri simili da tutelare, al pari degli stessi familiari.
Il fatto di maltrattare un animale domestico costituisce di per sé reato [3]. L’animale è considerato, secondo i giudici della Corte Suprema, come una “persona non umana”, in grado di percepire tanto il dolore fisico, quanto le sofferenze a livello emotivo.
Pertanto, sotto un aspetto strettamente giuridico, l’interesse (di cui è titolare il padrone) all’integrità dell’animale domestico, essendo questi un essere senziente [4], deve essere sempre tutelato.
Ciò anche in virtù del fatto che l’animale, rivestendo un ruolo importante all’interno della famiglia, proietta, seppur indirettamente, il proprio malessere nella sfera emotiva dei suoi padroni, i quali subiscono di conseguenza un danno morale.
[1] Corte Cass. sent. 21.12.2011
[2] Si pensi alla Pet Therapy (ZooTerapia), praticata in molte strutture ospedaliere. Attraverso l’interazione tra animali e malati si cerca di migliorare lo stato psico-fisico dei pazienti.
[3] Art. 638 c.p.: “uccisione o danneggiamento di animali altrui”.
[4] Essere in grado di percepire gli stimoli fisici e psichici, quindi anche la sofferenza stessa.
Co.co.pro: ecco i lavori (tra cui call center) ove è vietato assumere a progetto
Con Circolare n. 29-2012, il Ministero Lavoro ha individuato una serie di attività che possono essere svolte solo in forma subordinata e quindi mai con co.co.pro.: una sorta di black list per le collaborazioni coordinate a progetto. Il documento elenca una serie di compiti che per la loro particolarità non potranno mai essere svolti sotto forma di collaborazione.
L’elenco è “meramente esemplificativo e non esaustivo”, per cui non esaurisce i casi in cui vi possa essere divieto di utilizzare lo strumento del co.co.pro.
Il personale ispettivo dovrà tenerne conto nelle verifiche quotidiane.
Stop, dunque, alle collaborazioni per commessi, muratori, autisti, baristi, addetti alle pulizie, camerieri e baristi, custodi e portieri, estetiste e parrucchieri, facchini, magazzinieri, terminalisti e addetti alle attività di segreteria, piloti e assistenti di volo, prestatori di manodopera nel settore agricolo, operatori di call center e addetti alla somministrazione di cibo o bevande.
La circolare precisa, tra l’altro, quali debbano essere i connotati delle collaborazioni a progetto per evitare di incorrere nella trasformazione in rapporti subordinati. Il requisito fondamentale del co.co.pro., con la riforma, è rappresentato esclusivamente dal progetto. E’ questo l’unica condizione sufficiente e necessaria cui ricondurre tali collaborazioni, essendo stati eliminati i riferimenti al programma di lavoro o alla sua fase. Insomma: il progetto deve essere collegato ad un risultato finale. E nel contratto andrà accuratamente descritto, non essendo più sufficiente la sua indicazione.
I requisiti del nuovo contratto a progetto:
- Progetti specifici: i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici, pertanto non più a programmi di lavoro o fase di esso;
- Risultato finale: il progetto deve essere collegato ad un determinato risultato finale ovvero ad uno specifico obiettivo da raggiungere;
- Descrizione del progetto: il progetto deve essere descritto nel suo contenuto caratterizzante e con il risultato finale che si intende conseguire;
- Non deve coincidere con l’oggetto sociale del committente: il progetto deve essere specifico e non può limitarsi al richiamo dell’attività dell’azienda;
- Compiti non meramente esecutivi e ripetitivi: il progetto riguardare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi. Il collaboratore a progetto deve lavorare con autonomia anche operativa.
- Corrispettivo economico: il compenso non può essere inferiore ai minimo stabiliti per ciascun settore di attività e in ogni caso rispetto ai minimi salariali stabiliti dai contratti sottoscritti dai sindacati dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Cartelle esattoriali: nulle se manca la data nella relata di notifica
La copia della cartella esattoriale notificata al contribuente deve contenere, nella relata di notifica, la data di avvenuta consegna della stessa al destinatario, altrimenti è nulla.
Anche le cartelle esattoriali che Equitalia consegna al cittadino devono contenere la relazione di notifica (o anche detta “relata” di notifica), altrimenti sono nulle. Ciò, tuttavia, non succede quasi mai; con la conseguenza che gran parte delle pretese dell’Agente della riscossione potrebbero essere invalidate dal giudice.
Questo principio si deduce da una recente sentenza della Cassazione [1], la quale ha stabilito che la mancata indicazione della data di consegna, nella copia della cartella esattoriale consegnata al destinatario, comporta la nullità insanabile della notificazione stessa e, inoltre, impedisce anche il decorso del termine per proporre opposizione.
L’orientamento, come si diceva, potrebbe avere una portata dirompente, posta la ricorrente abitudine, da parte di Equitalia, di non munire di relata di notifica le copie delle cartelle esattoriali consegnate ai cittadini.
IN PRATICA
Nella copia della cartella esattoriale consegnata al contribuente deve risultare la relazione di notifica e, in ogni caso, la data di consegna della cartella stessa al destinatario. In mancanza, la notifica – e quindi anche la cartella– è nulla.
REATI CONTRO L’INCOLUMITÀ PUBBLICA - MA QUANDO SI VERIFICA IL DISASTRO COLPOSO?
Il reato di disastro innominato colposo (articolo 449 in relazione all’articolo 434 c.p.), in quanto reato di pericolo astratto, richiede la verificazione di un evento fortemente connotato sul piano naturalistico, contrassegnato da forza distruttiva di dimensioni assai rilevanti.
(Cassazione penale, sentenza 30/11/2012, n. 46475)
martedì 15 gennaio 2013
Cartelle esattoriali: come chiedere l’annullamento in modo automatico
Cartelle esattoriali palesemente illegittime: da oggi, il contribuente potrà attivarsi da solo, anche senza avvocato o commercialista, per chiederne l’annullamento direttamente a Equitalia (o ad altro agente della riscossione).
La nuova disciplina, introdotta con l’ultima legge di stabilità, ricalca una procedura già adottata da Equitalia, ma rimasta solo a livello interno [1].
Ecco quindi i singoli passaggi che consentiranno al contribuente di attivare questa forma di auto tutela.
Invio della dichiarazione
Entro 90 giorni dal ricevimento della notifica della cartella esattoriale (o di qualsiasi altro atto della procedura esecutiva o cautelare), il contribuente dovrà presentare al concessionario della riscossione (per es.: Equitalia) una dichiarazione (anche per via telematica) in cui chiederà lo sgravio della cartella.
In tale richiesta, egli dovrà indicare e documentare i motivi per cui ritiene illegittima la pretesa esattoriale.
Vi forniamo un modello prestampato di ricorso da presentare ad Equitalia (clicca sul titolo qui sotto)
Istanza di sospensione immediata delle misure cautelari o esecutive da presentare ad Equitalia
I motivi
Ecco i principali motivi per cui chiedere lo sgravio della cartella:
- intervenuta prescrizione del diritto di credito;
- intervenuta decadenza del diritto di credito;
- un provvedimento di sgravio già ottenuto dall’ente titolare del credito (per es. Inps);
- un provvedimento amministrativo o del giudice che ha sospeso l’efficacia esecutiva della cartella esattoriale;
- una sentenza che ha già annullato, in tutto o in parte, la cartella esattoriale;
- intervenuto pagamento della cartella esattoriale.
L’elenco non è esaustivo. Vi potranno quindi rientrare anche altre cause di non esigibilità del credito.
La comunicazione all’ente creditore
Nei successivi 10 giorni dal ricevimento della richiesta, Equitalia invierà tutta la documentazione all’ente creditore della pretesa affinché confermi o meno l’istanza avazanta dal contribuente.
La risposta dell’ente creditore
Entro 60 giorni dal ricevimento del fascicolo da parte di Equitalia, l’ente creditore comunicherà al contribuente, con raccomandata a.r. o con PEC, se intende aderire alla richiesta di annullamento, condividendo o meno i motivi evidenziati nell’istanza.
In entrambi i casi, l’ente creditore informerà della propria decisione anche l’ente titolare del credito, inviandogli:
- il provvedimento di sospensione o sgravio, in caso di accoglimento della richiesta del contribuente;
- oppure invitandolo a riprendere l’attività esecutiva, in caso di rigetto.
Silenzio assenso
Se, tuttavia, l’ente creditore non risponde entro 220 giorni dalla presentazione dell’istanza, quest’ultima si intende accolta e la cartella si considera automaticamente annullata.
Quindi si ha il discarico automatico dei relativi ruoli a carico del debitore.
Vale quindi la regola del “silenzio assenso”.
Sanzioni
Per evitare abusi di tale procedura, è prevista una sanzione amministrativa che va dal 100 al 200 per cento delle somme dovute qualora il contribuente presenti una documentazione falsa, onde evitare strumentalizzazioni della suddetta procedura.
Limiti del nuovo sistema
Il nuovo meccanismo ha già ricevuto numerose critiche per via dei suoi effetti limitati: innanzitutto perché si applica alle cartelle emesse a seguito di iscrizione a ruolo da parte di enti locali, prefetture e simili.
Tuttavia, le nuove disposizioni non dovrebbero limitarsi solo alle cartelle di pagamento, ma estendersi anche alle somme affidate agli agenti della riscossione e rientrarvi, dunque, anche gli accertamenti esecutivi. La norma cita le somme “affidate”, pertanto, l’esclusione sarebbe immotivata.
Inoltre, la procedura non sospende i termini per impugnare la cartella o del ruolo. Il contribuente dovrà, per prudenza, avviare ugualmente il ricorso.
IN PRATICA
Se il contribuente rice una cartella esattoriale palesemente illegittima (per es.: ha già pagato o la cartella era stata già annullata da un giudice o il credito è prescritto) può presentare un’istanza a Equitalia, spiegando e provando i motivi di nullità della cartella. Equitalia, a sua volta, invia l’istanza all’amministrazione titolare del credito. Sarà poi quest’ultima a comunicare al cittadino se vi è stato lo sgravio o meno della cartella esattoriale. Ma se la risposta non arriva entro 220 giorni, l’istanza si considera accolta e la cartella annullata.
Ricorsi Equitalia tutti nulli: difetto di procura
Numerosi ricorsi e appelli tributari, proposti da contribuenti e dalla stessa Equitalia rischiano di essere dichiarati nulli e inammissibili per “difetto di procura”.
Con una sentenza dagli effetti dirompenti, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, ha affermato che se la procura ad litem (quella cioè rilasciata dal cliente al proprio difensore) non è legata al corpo dell’atto con un timbro di congiunzione, la stessa deve ritenersi inadeguata al raggiungimento degli scopi preposti, con conseguente inammissibilità dell’atto: sia esso un giudizio di primo grado o di appello.
In alternativa al timbro di congiunzione, è possibile indicare, nella procura, gli elementi idonei a riconoscere la vertenza a cui la stessa si riferisce: in altre parole, sarà necessario indicare gli estremi del giudizio, le parti, l’atto impugnato, ecc..
A fare le spese di questa rigorosissima decisione è stata, questa volta, Equitalia, che si è vista dichiarare inammissibile un ricorso in appello proposto contro una decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Roma che aveva dato ragione al contribuente.
Tuttavia, lo stesso principio potrà applicarsi anche al contribuente. Con tutte le conseguenze che ciò comporterà.
IN PRATICA
La procura rilasciata, in un foglio separato, al difensore, per i giudizi innanzi alle Commissioni Tributari deve essere “collegata” al resto dell’atto con un timbro di congiunzione o indicare gli estremi del giudizio. Altrimenti il ricorso è inammissibile
Comunicazione dati del conducente: non obbligatoria dopo 90 giorni dalla multa
Il proprietario dell’automobile multata non è obbligato a fare la comunicazione dei dati del conducente all’Amministrazione se quest’ultima ha notificato la contravvenzione dopo 90 giorni dal giorno dell’infrazione.
Come a tutti noto, quando viene notificata una contravvenzione al proprietario del mezzo, questi ha l’obbligo, entro 60 giorni, di comunicare alla autorità pubblica il nome dell’effettivo conducente del mezzo al momento dell’illecito: ciò affinché si possa procedere alla decurtazione dei punti dalla patente [1] in capo a chi ha concretamente commesso l’infrazione.
La violazione di tale obbligo, peraltro, è sanzionata con multe abbastanza salate (da 369 euro a 1.075 euro).
Dall’altro lato, però, l’amministrazione ha l’obbligo [2] di notificare la multa – quando non sia stata possibile la contestazione immediata – entro 90 giorni dall’illecito. La comunicazione tardiva rende nulla la sanzione.
Con una sentenza dello scorso anno, la Cassazione [3] ha chiarito che, nell’ipotesi in cui l’amministrazione abbia omesso di notificare la multa nel suddetto termine di 90 giorni, il proprietario del mezzo non è più vincolato a inviare la comunicazione circa l’effettivo conducente: e ciò vale anche se il proprietario stesso non ha inteso proporre opposizione al primo verbale (egli però resta obbligato a impugnare il secondo verbale: quello con la contestazione della mancata comunicazione degli estremi del conducente).
La ragione di tale sentenza – spiega la Suprema Corte – risiede nel fatto che lo sforzo mnemonico di ricordare chi fosse alla guida del mezzo al momento dell’illecito può essere imposto al titolare del mezzo medesimo solo entro ragionevoli tempi (appunto, 90 giorni). Pertanto, l’obbligo del proprietario della comunicazione entro 60 giorni dalla notifica del verbale di contestazione può scattare solo se c’è stata la notifica tempestiva di tale verbale.
IN PRATICA
ATTENZIONE: L’automobilista deve stare molto attento. Infatti la comunicazione dei dati del conducente deve essere effettuata entro 60 giorni. Dopo tale termine scatta la sanzione. Al contrario, la multa può essere inviata entro 90 giorni: termine più lungo di 30 giorni rispetto al precedente obbligo.
Pertanto, attendere i 60 giorni nell’effettuare la comunicazione e poi desistere solo perché non si è ricevuta la contravvenzione può esporre a un grave rischio: quello di vedersi notificare la multa nei residui 30 giorni in cui l’amministrazione ha tale possibilità.
La conseguenza è che la sentenza della Cassazione è pressoché priva di utilità pratica. Sarebbe infatti irragionevole non inviare la comunicazione dei dati del conducente nei 60 giorni solo perché, in tale termine, non si è ancora ricevuta la multa e così rischiare di pagare fino a mille euro qualora, nei successivi 30 giorni, invece si riceva detta notifica.
Anatocismo bancario: ora si può
Con una recentissima sentenza [1], la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma [2] che aveva fornito un “aiutino” alle banche. In particolare, tale norma (ora dunque non più esistente) stabiliva, con effetto retroattivo, la decorrenza del termine di prescrizione per chiedere il riconoscimento della nullità dell’anatocismo [3], a far data dall’annotazione nei conti correnti delle singole operazioni di versamento o prelevamento e non dalla data di chiusura del conto (come anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano statuito con una sentenza emessa pochi giorni prima [4]).
La giurisprudenza, con un orientamento costante da diversi anni, infatti, aveva riconosciuto la nullità delle clausole inserite nei contratti con le Banche che prevedevano gli interessi anatocistici (cioè gli interessi sugli interessi già maturati) ed alcune indebite commissioni (quali quelle di massimo scoperto trimestrale o di rimborso spese forfettarie). Da qui erano sorte, in tutta Italia, numerose cause civili per il recupero delle somme indebitamente pagate o trattenute dalla Banche, ma che la norma, oggi dichiarata illegittima, aveva in gran parte neutralizzato rendendo inefficace buona parte delle domande giudiziali dei correntisti bancari.
La decisione della Corte Costituzionale restituisce ai cittadini un loro sacrosanto diritto e ripristina la legalità in una materia in cui una parte contrattuale, la Banca, ha una posizione predominante e vessatoria.
[1] C. Cost. sent. n. 78/2012.
[2] Legge 26.2.2011 n. 10, art. 2, c. 61, Legge di conversione del D.L.29.12.2010 n.225 (c.d. milleproroghe).
[3] Termine fissato dall’art. 2935 c.c. in 10 anni.
[4] Cass. S.U. sent. n. 24418 del 2.12.2010.
TRASFERIMENTO DI AZIENDA E T.F.R MATURATO AL MOMENTO DELLA CESSIONE
In caso di trasferimento di azienda e prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del datore di lavoro cessionario, il datore di lavoro cedente è obbligato, al momento della risoluzione del rapporto di lavoro, successivo al trasferimento dello stesso, al pagamento delle quote di TFR maturate fino alla data di trasferimento di azienda. Quanto alla quota di TFR maturata nel periodo del rapporto successivo al trasferimento di azienda, l’unico obbligato è il datore di lavoro cessionario.
Tribunale di Pistoia . Est. Tarquini . Sent. 19 luglio 2012 n° 183
IMPUGNATIVA DI LICENZIAMENTO COL CD. “RITO FORNERO”
Licenziamento individuale – impugnazione giudiziale – azienda sotto i 15 dipendenti – applicabilità della tutela obbligatoria – ricorso introdotto col cd. “rito Fornero” - inammissibilità della domanda anche se proposta in via subordinata.
Il ricorso proposto ai sensi dell’art. 1, commi 46 e ss. L. 92/10, deve avere ad oggetto espressamente le controversie inerenti l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art.18 L. 300/70 e non le controversie relative alla tutela obbligatoria, né è previsto che le domande aventi ad oggetto la cd. tutela debole possano rientrare “per trascinamento” (ove proposte in via subordinata) nel rito speciale, che attesa la sua peculiarità esclude l’applicazione in via analogica.
La domanda, pertanto, avente ad oggetto la tutela obbligatoria introdotta col cd. “rito Foriero” è inammissibile. (Fattispecie in cui, il Tribunale, respinta la domanda principale di tutela reale ex art.18, hadichiarato inammissibile la domanda di tutela obbligatoria proposta in via subordinata).
Tribunale di Arezzo, ordinanza 22.11.2012, Est. Dott. S. Salcerini
venerdì 11 gennaio 2013
Vicini molesti? C’è l’obbligo di allontamento
Tribunale Milano, Ufficio GIP, ordinanza 10.12.2012
Se il vicino è molesto e compie atti persecutori il giudice può allontanarlo.
Con l’interessante ordinanza 10 dicembre 2012 del Tribunale di Milano il gip ha applicato, infatti, la misura cautelare prevista dall’articolo 282 bis c.p.p., disponendo l’allontanamento dalla casa familiare di un soggetto il quale compiva atti persecutori nei confronti di altre persone residenti nel suo stesso stabile, ma non conviventi con esso.
Due gli aspetti su cui porre rilievo:
a) per quanto concerne gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p., vi è da dire che tale fattispecie viene integrata anche nel caso in cui le minacce o le molestie siano recate in danno di più persone, costituendo per ognuna di esse, motivo di stress e ansia, non essendo richiesto, ai fini della reiterazione della condotta, che gli atti persecutori siano diretti sempre e comunque nei confronti della stessa persona. Ciò sempre che, dalla molteplicità di tali atti, ne derivi per ogni vittima quel “turbamento” indicato dalla citata norma incriminatrice.
b) la misura cautelare prevista dall’articolo 282 bis c.p.p. (allontamento dalla casa familiare) è applicabile per ogni genere di reato, non solamente per il fatti commessi in ambito intrafamiliare, essendo più favorevole, in termini di limiti alla libertà personale, della misura che altrimenti dovrebbe essere imposta, ovvero il divieto di dimora nel territorio di un certo comune (ex art. 283 c.p.p.).
L’ordinanza in commento è stata emessa nei confronti di una condomina che, ripetutamente e senza alcun motivo, aveva minacciato, molestato, aggredito (fisicamente e verbalmente) nonché insultato alcuni condomini del suo stabile.
Tale suo comportamento aveva turbato la tranquillità e la serenità, ponendo, di conseguenza, in essere il reato previsto e punito dal sopra citato articolo 612 bis c.p.
Con l’ordinanza 10 dicembre 2012 il giudice del tribunale di Milano ha richiamato anche precedenti giurisprudenziali della Cassazione, quali la sentenza del 7 aprile 2011, n. 20895 con cui la Corte “è entrata anche in ambito condominiale” per la fattispecie criminosa prevista e punita dall’articolo 612 bis c.p. precisando che tale reato può, infatti, configurarsi anche quando gli atti arrechino offesa a diverse persone abitanti nello stesso edificio condominiale, provocando il turbamento di ciascuna di esse.
Uno degli aspetti sicuramente di maggior rilievo della decisione che qui si commenta è, però, quello relativo all’adozione, nei confronti della stalker, della misura cautelare (ex art. 282 bis c.p.p.) al fine di allontanarla da quei luoghi abitualmente frequentati dalle vittime.
Il giudice del tribunale di Milano ha ritenuto che tale misura cautelare fosse la più idonea al fine di garantire l’incolumità e la sicurezza delle vittime; il gip ha, infatti, precisato (considerando sia gli atti persecutori che lo stato di salute dell’autore del reato) che solamente disponendo l’allontanamento dalla casa familiare, le condotte moleste, poste in essere (sia di giorno che di notte) dalla donna “stalker” nella propria abitazione, ma anche e soprattutto nelle parti comuni dello stabile sarebbero finite.
Interessante anche il fatto che il gip ha ritenuto la non applicabilità dell’articolo 283 c.p.p. (la Cassazione, 9 marzo 2010, n. 19565, ne ha escluso l’applicazione al fine di vietare all’indagato di accedere in alcuni edifici).
Secondo quanto precisato dal gip nella ordinanza in commento, la misura cautelare ex art. 282 bis c.p.p. avrebbe una portata più ampia, in quanto può ben trovare applicazione non solo in relazione a reati differenti da quelli commessi in ambito familiare e all’interno dell’abitazione, ma anche al fine di tutelare persone non coabitanti nella stessa abitazione (sul punto cfr. Cass. pen, sez. VI, 15 aprile 2010, n. 17788; Cass. pen., sez. VI, 4 febbraio 2008, n. 25607).
Danni da insidia stradale: sì a responsabilità oggettiva del Comune
Tribunale Verona, sez. II civile, sentenza 22.09.2012 n° 1951 (Raffaele Plenteda)
In tema di danni da insidia stradale, la Sentenza del Tribunale di Verona, G.U. Dott. Ernesto D’Amico, n. 1951/2012 si colloca a pieno titolo nel solco ormai definitivamente tracciato da dottrina e giurisprudenza, rivolto ad affermare l’applicabilità tout court dell’art. 2051 c.c. anche al Comune, con riferimento ai tratti di strada comunale rispetto ai quali l’ente pubblico in questione è destinato ad assumere a tutti gli effetti la qualifica di custode.
Non solo. Il Giudice del Tribunale torna a sottolineare, anche sotto questo profilo in linea con i più recenti indirizzi, la natura oggettiva dell’ipotesi di responsabilità prevista dal menzionato art. 2051 c.c. in materia di danni cagionati da cosa in custodia.
Il congiunto operare, sul piano esegetico ed applicativo, dei due principi testé richiamati è destinato a produrre - come effettivamente si sta progressivamente verificando da diversi anni - un innalzamento del grado di tutela accordato agli utenti della strada rimasti vittima di insidie e, specularmente, un aumento del rischio risarcitorio sulle spalle dei Comuni.
In punto di diritto, la richiamata sentenza del Tribunale di Verona si distingue per la lucida e opportunamente sintetica ricostruzione dell’excursus della giurisprudenza di legittimità che ha condotto ad un’estensione nei confronti dei Comuni della regola sancita dall’art. 2051 c.c. e, per altro verso, per la specificazione – sul piano pratico e operativo – dell’affermata natura oggettiva della responsabilità prevista dalla disposizione codicistica.
La configurabilità di una responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c., in particolare, ha come presupposto la sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato. Sussistendo tale presupposto, la responsabilità risarcitoria si imputerà al soggetto che è in condizione di controllare i rischi inerenti alla cosa essendone il custode.
Accertati tali presupposti, il custode avrà un’unica possibilità di andare esente da responsabilità, da ricercarsi nella prova del caso fortuito.
Trattandosi di responsabilità oggettiva, il caso fortuito non può identificarsi nella mera assenza di colpa del custode, ma deve risolversi in un vero e proprio fattore oggettivamente individuabile, esterno alla cosa e dotato dei caratteri dell’imprevedibilità ed inevitabilità da parte del custode, che incida – interrompendola – sulla serie causale che dalla cosa conduce al danno.
I fattori esterni alla cosa, potenzialmente forieri di un pericolo non connaturato alla cosa e come tali suscettibili di integrare il caso fortuito, possono essere determinati dallo stesso danneggiato o da terzi e rilevano, ai fini dell’esclusione della responsabilità, se (e solo se) esulino dalla sfera di controllo del custode e, in particolare, dall’attività di controllo e di manutenzione da esso esigibile per garantire un intervento tempestivo di rimozione.
L’impostazione appena prospetta ha delle evidenti e sostanziali ricadute sul piano probatorio: una volta che l’attore/danneggiato abbia dato la prova del nesso causale, incomberà all’ente convenuto, per liberarsi dalla responsabilità, dare la prova del caso fortuito così rigorosamente inteso.
Tumori: amianto, in Italia 16.000 mesoteliomi maligni in 15 anni
Sono 15.845 i mesoteliomi maligni, i tumori dovuti all'esposizione all'amianto, rilevati in Italia tra il 1993 e il 2008. Sono i dati del quarto rapporto del ReNaM (Registro nazionale dei mesoteliomi) presentati a Venezia nel corso della seconda Conferenza sull'amianto e le patologie correlate. Di questi casi - rilevati durante l'intero periodo di attività del registro - circa 12mila sono stati analizzati in rapporto alle diverse modalità di 'contatto' con la fibra killer. Il 69,3% è dovuto a cause professionali; il 4,4% ha un'origine familiare (per esempio, l'inalazione dell'asbesto durante il lavaggio di tute da lavoro impregnate della sostanza cancerogena); il 4,3% ambientale; l'1,6% per un'attivita' extralavorativa di svago o hobby; nel 20, 5% dei casi, infine, l'esposizione è improbabile o ignota. ''I dati presentati nel nuovo rapporto confermano le previsioni di qualche anno fa: si intravede l'inizio di un'attenuazione del ritmo di crescita della malattia - spiega Alessandro Marinaccio, ricercatore presso il Dipartimento di medicina del lavoro Inail Ricerca e responsabile del ReNaM -. Si arriverà a una soglia, o picco, attorno al 2015, e per i prossimi anni prevediamo un assestamento delle patologie''.
TRIBUNALE DI MILANO: Imprenditore assolto dall’accusa di evasione, l’Asl non pagava
Se la pubblica amministrazione non paga i propri debiti verso i fornitori, non può poi pretendere che questi, in crisi anche per la mancanza di quei soldi nelle casse, vengano condannati perché non hanno versato le tasse dovute. È il principio stabilito dalla sentenza di un giudice del Tribunale di Milano che ha assolto un imprenditore che era accusato di evasione fiscale per il mancato versamento di circa 180 mila euro di iva, ma che vantava crediti per forniture ad alcune Asl per circa 1 milione e 700 mila euro. La notizia è stata pubblicata oggi dal Corriere della Sera.
La Procura aveva chiesto la condanna per Paolo Guerra, legale rappresentante dell'azienda Sintea Plustek di Assago (Milano) che produce e vende protesi vertebrali. Dal 2005 la società ha fornito prodotti per un milione e 700mila euro a tre Asl e ad un ospedale della Campania, senza però riuscire ad ottenere i pagamenti per le prestazioni effettuate. La stessa impresa avrebbe dovuto comunque versare al fisco quasi 180 mila euro di va per le fatture emesse e non l'ha fatto.
Da qui l'accusa di evasione. Il gip di Milano, Claudio Castelli, ha assolto però l'imputato perché, come scrive nelle motivazioni della sentenza, "è stato costretto a non pagare da un comportamento omissivo e dilatorio da parte di enti pubblici che avrebbero dovuto pagare".
Lo stesso principio è stato utilizzato in un'altra sentenza del Tribunale milanese. In quel caso 'alla sbarra’ era finito il legale rappresentante della comunità di recupero per tossicodipendenti 'Saman', che venne fondata da Maurizio Rostagno. Malgrado la comunità vantasse crediti nei confronti di Asl o ministeri per due milioni e mezzo nel 2009, il suo rappresentante era accusato di evasione fiscale per un milione e 750 mila euro, sempre per mancato versamento dell'iva sulle fatture. Il gip Maria Grazia Domanico ha assolto l'imputato perché per la comunità, in crisi anche per i soldi non avuti e che gli spettavano, non pagare il fisco è stato un "caso di forza maggiore" e non c'è il dolo. Malgrado le assoluzioni nei due processi penali, gli imputati dovranno comunque versare le tasse dovute nel procedimento tributario.
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Nuovo codice della strada - Novità 2013
Il 19 gennaio 2013 entrano in vigore le disposizioni del decreto legislativo 18 aprile 2011 n. 59, con cui è stata recepita la direttiva n. 2006/126/Ce in materia di patenti di guida ma che contiene anche modifiche agli articoli del Codice della strada meritevoli di una accurata riflessione, dato che non essendo vincolati ai criteri della direttiva, sono espressione esclusiva della volontà del Legislatore nazionale, soprattutto per quello che concerne l’impianto sanzionatorio.
Cass. pen., Sez. I, ud. 5 dicembre 2012 - dep. 4 gennaio 2013, n. 134 Contestato il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti..
l'accertamento della sproporzione del valore dei beni sequestrati e confiscati rispetto ai redditi dichiarati ed all'attività svolta dall'agente, o della provenienza da condotte illecite, necessario ai fini dell'applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 2 ter e 3 della L. n. 575 del 1965, può essere legittimamente compiuto sulla base della ricostruzione della somma di denaro rinvenuta nella disponibilità dell'agente e dell'affermata natura di profitto del reato predetto, nonché delle informazioni ottenute da taluni fruitori dei documenti fiscali e dell'accertata corrispondenza all'importo dell'i.v.a. dovuta all'Erario per gli importi fatturati riscossi dagli operatori economici destinatari delle fatture stesse.
In ipotesi di contestazione della condotta criminosa di utilizzazione, da parte dell'agente, della propria impresa societaria prevalentemente quale cartiera, per la emissione di fatture per operazioni inesistenti, utilizzate poi da altri imprenditori per simulare costi in realtà mai sostenuti, e dunque quale attività dalla quale ricavare ingenti profitti mediante il meccanismo della retrocessione in denaro contante di quanto dovuto all'Erario a titolo di i.v.a. sugli importi fatturati, il requisito dell'attualità della pericolosità sociale, necessario ai fini dell'applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p.s., non viene meno né con la chiusura dell'esercizio commerciale, né con la collaborazione nell'attività di indagine. Il protrarsi pervicace, organizzato e sistematico dell'attività illecita, invero, unitamente alla consistenza attuale di un patrimonio mobiliare frutto della stessa, costituente fonte di sostentamento dell'indagato, costituisce espressione di quella abitualità che connota la pericolosità sociale ex art. 1, L. n. 1423 del 1956.
Tumore determinato dall’utilizzo continuativo del cellulare: per la Cassazione costituisce la malattia professionale. Visualizza articolo completo Tumore cellulare malattia lavoro
Corte di Cassazione, sez. lavoro, 12 ottobre 2012, n. 17438
Per la prima volta, la giurisprudenza di legittimità si esprime in merito alla dannosità dei telefoni cellulari nonché sulla rilevanza causale tra l’uso continuativo degli stessi e l’insorgenza di una malattia professionale.
L’Inail viene obbligata dalla Corte di Appello di Brescia a corrispondere ad un manager la rendita per malattia professionale prevista per l’invalidità all’80%, a causa dell’insorgenza tumorale nel lavoratore determinata dall’utilizzo del cordless e del telefono cellulare protratto per 12 anni e per 5-6 ore al giorno (trattasi nello specifico di “neurinoma del Ganglio di Gasser”, tumore che colpisce i nervi cranici, in particolare il nervo acustico e, più raramente, come nel caso di specie, il nervo cranico trigemino).
L’Inail ricorre in Cassazione sostenendo che la Corte territoriale aveva fondato la propria decisione sulle conclusioni del CTU, il quale si era basato esclusivamente sugli studi scientifici della sola Hardell group. Tali studi non hanno un sicuro riscontro nella restante comunità scientifica, infatti quest’ultima si pone in una posizione più scettica poiché ritiene che, allo stato attuale, non vi sia una convincente evidenza del ruolo delle radiofrequenze nella genesi dei tumori.
Tuttavia per il Collegio la censura mossa dall’Istituto ricorrente non è meritevole d'accoglimento, in quanto si limita a una critica del convincimento del giudice di merito che si è fondato, per l’appunto, sulla consulenza tecnica esperita dal proprio ausiliare giudiziario, senza indicare le fonti scientifiche in base alle quali avrebbero dovuto ritenersi scientificamente errate le affermazioni rese al riguardo dal CTU e seguite dalla sentenza impugnata.
Secondo l’orientamento consolidato di legittimità “affinché i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i relativi vizi logico-formali si concretino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere considerazioni sulle prospettazioni operate dalla controparte” (cfr., ex plurimis, Cass., n. 16392/2004; 17324/2005; 7049/2007; 18906/2007).
L’istituto ricorrente rilevava tra l’altro che la Commissione scientifica per l’elaborazione e la revisione periodica delle malattie, in occasione dell’aggiornamento dell’elenco approvato con D.M. 11 dicembre 2009, non aveva ritenuto di dover includere i tumori dei nervi cranici, indotti da esposizione alle radiofrequenze, tra le malattie di possibile origine professionale.
La Corte rigetta anche tale censura e richiamando principi già esposti in altre decisioni ricorda che “nel caso di malattia professionale non tabellata, come anche in quello di malattia ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità… considerando che la natura professionale della malattia può essere desunta con elevato grado di probabilità dalla tipologia delle lavorazioni svolte, dalla natura dei macchinari presenti nell’ambiente di lavoro, dalla durata della prestazione lavorativa e dall’assenza di altri fattori extra lavorativi, alternativi o concorrenti, che possano costituire causa della malattia” (cfr., ex plurimis, Cass., n. 6434/1994; 5352/2002; 11128/2004; 15080/2009). Di conseguenza, al fine di escludere il risarcimento del danno, non è sufficiente che una determinata malattia non sia tabellata o non già riconosciuta dall’Inail: se la patologia viene provata per causa di lavoro, l’Istituto deve provvedere al risarcimento.
Amianto e decesso per mesotelioma: sussiste la responsabilità dell’imprenditore per omessa adozione delle misure preventive. Visualizza articolo completo Mesotelioma responsabilita prevenzione amianto
Cassazione civile, sez. lavoro, 30 maggio 2012, n. 8655
La Corte di Appello di Venezia, riformando parzialmente la sentenza del giudice di primo grado, accoglieva la domanda degli aventi causa avente ad oggetto il risarcimento iure hereditatis del danno sofferto in vita da un lavoratore addetto alla lavorazione dell’amianto e deceduto per mesotelioma.
La decisone del giudice di primo grado, confermata dal giudice d’appello, fondava la responsabilità della società sulla mancata adozione delle misure preventive previste dalla normativa speciale all’epoca dei fatti, ai sensi dell’art. 2087 c.c..
La società responsabile ricorreva in Cassazione contestando la mancata adesione da parte dei giudici di prime cure alle conclusioni offerte dal CTU, in base a cui solo l’abolizione dell’amianto, il cui utilizzo all’epoca dei fatti non era ancora vietato, avrebbe garantito con efficacia certa la prevenzione del mesotelioma. Diversamente, l’adozione di tutte le misure preventive previste all’epoca dei fatti dalla legge antinfortunistica avrebbe potuto unicamente ridurre il rischio di contrarre la patologia poi rivelatasi letale. I giudici di prime cure avevano invece affermato la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che l’adozione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, sia di carattere ambientale (aspiratori e separazione delle lavorazioni) sia di tipo personale (i dispositivi di protezione), se sicuramente importanti per l’abbattimento del rischio per le patologie quali asbestosi e tumore polmonare, avrebbero potuto evitare, con qualche probabilità, anche l’insorgenza del mesotelioma. Ritenevano inoltre non rilevante la circostanza addotta dal ricorrente secondo cui il mesotelioma, allo stato delle conoscenze medico-scientifico del tempo, non fosse correlato all’amianto, poiché era comunque nota la pericolosità della detta sostanza indipendentemente dalla patologia che ne sarebbe potuta derivare.
La società ricorrente, stante l’insussistenza del nesso di causalità tra mancata adozione di misure di carattere preventivo e insorgenza di tale specifica patologia, così come stabilito nella relazione del CTU, si doleva dell'imputazione della responsabilità a titolo meramente oggettivo del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Tuttavia il Supremo Collegio conferma “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. che, pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio ( Cass. 1 febbraio 2003 n. 249)”.
Per questo motivo la Corte rigetta il ricorso, respingendo anche il motivo teso ad ottenere una diversa quantificazione del risarcimento del danno corrisposto, liquidato senza tener conto della peculiarità del caso concreto ed in particolarità della gravità delle lesioni, degli eventuali postumi permanenti, dell’età, dell’attività espletata e delle condizioni familiari e sociali del danneggiato. La Corte territoriale, alla stregua della sentenza Sezioni Unite civili dell’11 novembre 2008 n. 26972, ha infatti utilizzato “il criterio equitativo puro di cui all’art. 1226 c.c., svincolato da criteri automatici e tabelle standardizzate, tenendo conto in particolare della estrema gravità ed afflittività della patologia e della consapevolezza da parte del malato della ineludibile conclusione infausta della stessa”.
giovedì 10 gennaio 2013
Donazione o negozio fiduciario?
Cassazione civile , sez. II, sentenza 27.08.2012 n° 14654 (Simone Marani)
Solo l’attribuzione patrimoniale gratuita, eseguita per spirito di liberalità, può integrare una donazione. E' quanto ha deciso la Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, con la sentenza 27 agosto 2012, n. 14654.
Nella specie un uomo agiva in giudizio per far valere la nullità della cessione di alcuni titoli di credito, effettuata dalla decedutra madre di costui a favore della cognata, asserendo che tale operazione integrasse una donazione, nulla per difetto di forma. La cognata, al contrario, riteneva di aver ricevuto detti titoli in esecuzione di una disposizione fiduciaria.
Secondo l'opinione dominante, come ricordato dai giudici di legittimità, il negozio fiduciario è il negozio con il quale un soggetto (il fiduciante) trasferisce ad un altro soggetto (il fiduciario) la titolarità di un diritto, il cui esercizio viene limitato da un accordo tra le parti (pactum fiduciae) per uno scopo che il fiduciario si impegna a realizzare, ritrasferendo poi il diritto allo stesso fiduciante o ad un terzo beneficiario.
La fattispecie si sostanzia, in conclusione, in un accordo tra due soggetti, con cui il primo trasferisce (o costituisce) in capo al secondo una situazione giuridica soggettiva (reale o personale) per il conseguimento di uno scopo pratico ulteriore, ed il fiduciario, per la realizzazione di tale risultato, assume l'obbligo di utilizzare nei tempi e nei modi convenuti la situazione soggettiva, in funzione strumentale, e di porre in essere un proprio comportamento coerente e congruo.
Trattandosi di fattispecie non espressamente disciplinata dalla legge, e, in mancanza di una disposizione espressa in senso contrario, il pactum fiduciae non può che essere affidato al principio generale della libertà della forma.
Di conseguenza, se il ricorrente non riesce a provare che la cessione dei titoli sia avvenuta con animus donandi della defunta madre, non è possibile parlare di donazione ma, come nella specie, di negozio fiduciario.
(Altalex, 17 ottobre 2012. Nota di Simone Marani)
mercoledì 9 gennaio 2013
Estorsione per chi minaccia azioni giudiziarie al fine di ottenere somme di denaro non dovute. Visualizza articolo completo Estorsione minaccia azioni giudiziarie
Cassazione penale, sez. II, 17 dicembre 2012, n. 48733
«Integra gli estremi del reato di estorsione e non quello di truffa la minaccia di prospettare azioni giudiziarie (nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti) al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute e l’agente ne sia consapevole, atteso che la pretestuosità della richiesta va ritenuta un male ingiusto».
L’esercizio di un diritto, o la minaccia di esercitarlo - quali indubbiamente sono il concreto esercizio di un’azione giudiziaria o esecutiva o anche la minaccia di tali iniziative - non presentano, di per sé, i caratteri della minaccia necessaria per l’astratta configurabilità del delitto di estorsione:
Tuttavia, se l’esercizio del diritto o la minaccia di esercitarlo sono volte a realizzare un vantaggio ulteriore e diverso da quello spettante, il pregiudizio che, attraverso l’iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si prospetta al soggetto passivo non si pone in un rapporto di funzionalità rispetto al soddisfacimento del proprio legittimo interesse, ma mira ad ottenere una pretesa ulteriore ed estranea al rapporto sottostante. Quest’ultima, poiché non trova alcuna giuridica giustificazione in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare.
In questo senso si è già espressa questa Corte, avendo statuito che «in tema di estorsione, anche la minaccia di esercitare un diritto - come reservizio di un’azione giudiziaria o esecutiva - può costituire illegittima intimidazione idonea ad integrare l’elemento materiale del reato quando tale minaccia sia finalizzata al conseguimento di un profitto ulteriore, non giuridicamente tutelato».
(estratto della sentenza)
APPALTI E FALSO IDEOLOGICO - IMPRENDITORE TRUCCA LE CARTE PER PARTECIPARE AD UNA GARA DI APPALTO: NON SCATTA LA TURBATIVA D'ASTA MA IL FALSO IDEOLOGICO -
Il legale rappresentante di una società che partecipa ad una gara pubblica e che presenti documentazione "truccata" non risponde del reato di turbativa d'asta ma di quello di falso ideologico; è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.118, del 3 gennaio 2013.
martedì 8 gennaio 2013
Stipulazione di contratti senza previa gara tra enti pubblici. Corte di Giustizia UE – Grande Sezione – Sentenza 19 dicembre 2012
Il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui – ciò che spetta al giudice del rinvio verificare – tale contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d’interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.
DA LUGLIO 2013 ANNULLATE TUTTE LE CARTELLE ESATTORIALI PER DEBITI INFERIORI AI 2000 EURO.
Per i contribuenti morosi grossa novità a partire da luglio 2013. Tutte le cartelle esattoriali non pagate di importo non superiore a 2000 euro e le relative iscrizioni a ruolo purchè anteriori al 31/12/1999 saranno annullate automaticamente. (Saranno annullati anche i ruoli provvisori, per i quali pende un contenzioso. In questo caso la soglia dei duemila euro deve far riferimento al credito accertato e non al ruolo provvisorio. Pertanto le cause iniziate davanti alle Commissioni tributarie si estingueranno e le cartelle verranno annullate automaticamente.). Perché le cartelle siano annullate, bisogna verifica che il ruolo sia stato reso esecutivo fino al 31/12/1999. Se non è visibile in cartella tale indicazione, si potrà chiedere all’agente della riscossione. Saranno annullate tutte le cartelle esattoriali nonché imposte, sanzioni, interessi, debiti di natura tributaria, contributi Inps, multe, contravvenzioni stradali, etc.
Riforma condominio, per chi non paga le spese arriva il decreto ingiuntivo sprint
La riforma del condominio potenzia gli strumenti contro i morosi. Non si tratta di “armi” nuove, ma di una migliore definizione di quelle già esistenti, da utilizzare con maggior forza e velocità.
In primo luogo l’amministratore sarà obbligato (la riforma entrerà in vigore a maggio) ad agire contro i ritardatari entro sei mesi dalla chiusura dell’esercizio. In sostanza dovrà richiedere a un giudice un decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo. Non rispettare il dettato del codice costituirà grave irregolarità, e quindi causa di revoca del mandato dell’amministratore. Il passaggio in assemblea non è più previsto, così come anche per la sospensione del condomino moroso dalla fruizione dei servizi comuni. Infine, scatterà l’obbligo di comunicare i dati degli inadempienti ai creditori.
Questi dovranno agire in prima battuta nei confronti dei morosi, cosa che rischia però di complicare i rapporti tra fornitori e condominio, dato che diventerà più complicato riscuotere i crediti.
Si tratta di “armi” che potranno essere utili a contrastare un fenomeno in continua crescita – concordano le associazioni di amministratori – soprattutto nei casi di proprietari che hanno la possibilità di pagare ma che approfittano delle mancate azioni giudiziarie per continuare a vivere sulle spalle degli altri. Situazioni che spesso gli amministratori meno scrupolosi lasciano protrarre nel tempo, timorosi di ricorrerre alle vie giudiziarie (e proporle all’assemblea).
Nella migliore delle ipotesi per venire incontro alle difficoltà delle famiglie ed evitare il peso dei costi legali (che devono essere comunque anticipati tra le spese comuni). Ma anche per non “inimicarsi” parte dei condomini che sostengono il loro mandato, o, peggio, per poter continuare in una gestione poco trasparente dei conti condominiali. Cosa quest’ultima espressamente vietata dalla riforma: la previsione di una contabilità dettagliata e di un conto corrente condominiale aiuterà a far emergere le posizioni irregolari.
Quando invece si tratta di reali situazioni di difficoltà e incapienza – moltiplicate dalla crisi – il condominio che ricorre all’ingiunzione e al pignoramento arriva spesso dopo altri creditori privilegiati, in primo luogo le banche benificiarie delle ipoteche che gravano sui mutui. Le spese legali e la lunghezza delle procedure portano, in alcuni casi, solo ad aggravare i problemi. L’assemblea comunque conserva la possibilità di dispensare l’amministratore dall’azione legale. Si deve tenere però conto che i tempi previsti dalla riforma sono già ampi. Si pensi al caso in cui un condomino non paghi la prima rata prevista per l’esercizio, che poniamo coincida con l’anno solare 2013; supponendo che la rata scada a marzo e che l’approvazione del consuntivo avvenga a gennaio 2014 (ipotesi ottimistica), l’azione obbligatoria scatterà solo nel luglio 2014, quasi un anno e mezzo dopo dal momento in cui si è manifestata la morosità.
Al punto che si può ipotizzare – lo fa ad esempio Rosario Calabrese, presidente Unai – che il termine dei sei mesi, se mal interpretato, possa essere strumentalizzato per rinviare l’azione contro i morosi che invece oggi, nei casi migliori, parte fin dal mancato rispetto delle rate fissate dal bilancio preventivo. Secondo l’Anaci, era invece difficile ipotizzare termini o prescrizioni differenti e le misure contenute nella riforma sono da accogliere con sollievo da tutti i condomini che pagano regolarmente.
Si tratta, in realtà, di casi sempre più rari: secondo un’indagine effettuata per Casa24 Plus qualche mese fa da Harley&Dikkinson in un edificio su 4 la scarsa puntualità nei pagamenti va dal 20 al 50%. Un quadro che è peggiorato negli ultimi anni: «Oramai un condominio su tre è in situazioni preoccupanti – dice Vittorio Fusco, presidente Anapi – la lettera dell’avvocato oramai non produce più effetto». E il fenomeno è diffuso anche nelle “zone bene”, prima quasi immuni. «I condomini morosi sono passati dal 10 al 20% – stima Giuseppe Bica, presidente Anammi – La crisi induce a dare priorità ad altre spese, come il mutuo e le bollette, ritenute più urgenti».
Si creano così situazioni che costringono anche a rinunciare a lavori straordinari o a innovazioni che non solo migliorererebbero la condizione abitativa e aumenterebbero il valore degli alloggi, ma che eviterebbero il deterioramento dello stabile. Il continuo rinvio degli interventi, inoltre, porta spesso a successive spese più elevate, che a loro volta potrebbero peggiorare il tasso di morosità: un circolo vizioso difficile da interrompere.
Fonte: ilsole24ore
lunedì 7 gennaio 2013
OMESSO VERSAMENTO
Il professionista sbaglia, ma il contribuente non deve pagare le sanzioni
di Enzo Di Giacomo - Tributarista
Il contribuente deve pagare il tributo ma non le sanzioni in caso di omesso versamento da parte del professionista a cui aveva conferito l’incarico.
(Corte di Cassazione, sez. Tributaria, sentenza n. 23601/12; depositata il 20 dicembre)
Nessuna giusta causa se il lavoratore rifiuta il trasferimento 8 mesi prima del recesso
Non costituisce giusta causa ai sensi del combinato disposto della L. n. 604/66 e dell’art. 2103 c.c. l’opposizione al trasferimento, offerto 8 mesi prima del licenziamento, presso una controllata della società datrice, se il lavoratore non era stato avvertito che il diniego avrebbe comportato il recesso e se l’azienda, contrariamente a quanto dichiarato, sia prima che dopo lo stesso, ha assunto personale adibito anche alle medesime mansioni.
(Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 6/13; depositata il 2 gennaio)
venerdì 4 gennaio 2013
ACQUA ALL'ARSENIO
SE SEI UN CITTADINO DI UNO DEI SEGUENTI COMUNI CHE L’1 GENNAIO 2013 DEVE CHIUDERE IL RUBINETTO DELL’ACQUA POTABILE AVVELENATA DALL’ARSENICO.
Il 31 dicembre del 2012 scade il termine ultimo concesso dall’Unione Europea all’Italia per risolvere il problema della presenza di arsenico nelle acque destinate al consumo umano in percentuale superiore a quella prevista dalla legge. E non sarà possibile nessuna ulteriore deroga.
Tutti i titolari di un’utenza idrica residenti nei Comuni sotto elencati nei quali, entro il 31 dicembre del 2012, il problema della presenza dell’arsenico nell’acqua destinata al consumo umano in percentuale superiore a quella prevista dalla legge non è stato risolto, POTRANNO AGIRE AL FINE DI OTTENERE IL RISARCIMENTO DEI DANNI SUBITI E LA RIDUZIONE DELLA TARIFFA DELL'ACQUA!
Per info scrivere a: marco.tarelli@icam.es
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