venerdì 11 gennaio 2013
Amianto e decesso per mesotelioma: sussiste la responsabilità dell’imprenditore per omessa adozione delle misure preventive. Visualizza articolo completo Mesotelioma responsabilita prevenzione amianto
Cassazione civile, sez. lavoro, 30 maggio 2012, n. 8655
La Corte di Appello di Venezia, riformando parzialmente la sentenza del giudice di primo grado, accoglieva la domanda degli aventi causa avente ad oggetto il risarcimento iure hereditatis del danno sofferto in vita da un lavoratore addetto alla lavorazione dell’amianto e deceduto per mesotelioma.
La decisone del giudice di primo grado, confermata dal giudice d’appello, fondava la responsabilità della società sulla mancata adozione delle misure preventive previste dalla normativa speciale all’epoca dei fatti, ai sensi dell’art. 2087 c.c..
La società responsabile ricorreva in Cassazione contestando la mancata adesione da parte dei giudici di prime cure alle conclusioni offerte dal CTU, in base a cui solo l’abolizione dell’amianto, il cui utilizzo all’epoca dei fatti non era ancora vietato, avrebbe garantito con efficacia certa la prevenzione del mesotelioma. Diversamente, l’adozione di tutte le misure preventive previste all’epoca dei fatti dalla legge antinfortunistica avrebbe potuto unicamente ridurre il rischio di contrarre la patologia poi rivelatasi letale. I giudici di prime cure avevano invece affermato la responsabilità del datore di lavoro sostenendo che l’adozione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, sia di carattere ambientale (aspiratori e separazione delle lavorazioni) sia di tipo personale (i dispositivi di protezione), se sicuramente importanti per l’abbattimento del rischio per le patologie quali asbestosi e tumore polmonare, avrebbero potuto evitare, con qualche probabilità, anche l’insorgenza del mesotelioma. Ritenevano inoltre non rilevante la circostanza addotta dal ricorrente secondo cui il mesotelioma, allo stato delle conoscenze medico-scientifico del tempo, non fosse correlato all’amianto, poiché era comunque nota la pericolosità della detta sostanza indipendentemente dalla patologia che ne sarebbe potuta derivare.
La società ricorrente, stante l’insussistenza del nesso di causalità tra mancata adozione di misure di carattere preventivo e insorgenza di tale specifica patologia, così come stabilito nella relazione del CTU, si doleva dell'imputazione della responsabilità a titolo meramente oggettivo del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Tuttavia il Supremo Collegio conferma “la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c. che, pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio ( Cass. 1 febbraio 2003 n. 249)”.
Per questo motivo la Corte rigetta il ricorso, respingendo anche il motivo teso ad ottenere una diversa quantificazione del risarcimento del danno corrisposto, liquidato senza tener conto della peculiarità del caso concreto ed in particolarità della gravità delle lesioni, degli eventuali postumi permanenti, dell’età, dell’attività espletata e delle condizioni familiari e sociali del danneggiato. La Corte territoriale, alla stregua della sentenza Sezioni Unite civili dell’11 novembre 2008 n. 26972, ha infatti utilizzato “il criterio equitativo puro di cui all’art. 1226 c.c., svincolato da criteri automatici e tabelle standardizzate, tenendo conto in particolare della estrema gravità ed afflittività della patologia e della consapevolezza da parte del malato della ineludibile conclusione infausta della stessa”.
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